Il mito di Narciso nelle Metamorfosi di Ovidio |
Ovidio, Metamorfosi III, 413 sgg. pagina a cura di Paola Lerza
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La vita del giovane Narciso era segnata da una profezia dell’indovino Tiresia: il fanciullo sarebbe giunto alla vecchiaia solo se non avesse mai conosciuto se stesso. Nella più perfetta inconsapevolezza, non curandosi degli amori delle ninfe e delle lodi che lo circondavano, il bellissimo Narciso era arrivato all’età di sedici anni, dedito alla caccia e alla vita nei boschi. Ma il destino avrebbe presto confermato l’ineluttabilità della profezia. Un giorno, sfinito dal caldo e dalla fatica, il giovane si chinò a bere ad una fonte e vide la propria immagine riflessa nell’acqua. Immediatamente fu preso da una passione ardente per quella forma che vedeva e non riusciva ad afferrare, che gli rispondeva puntuale a ogni gesto e che scompariva a ogni minimo incresparsi dell’acqua. Fu questa passione a consumarlo: egli morì di struggimento e di dolore per il fatto di essere lui stesso l’oggetto di un desiderio che non poteva in nessun modo essere appagato. Al suo posto nacque un delicato fiore bianco che ancora oggi porta il suo nome. Il brano ovidiano è un capolavoro di adattamento dello stile alla materia trattata: con sapienti giochi di parole e con abili costruzioni sintattiche basate sulla simmetria, il poeta rende perfettamente la dinamica dell’immagine riflessa, dello sdoppiamento del personaggio che attraversa vari stati emotivi: l’illusione, l’atroce consapevolezza, la disperazione, il languore della morte. |
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Hic puer, et studio venandi lassus et aestu, procubuit faciemque loci fontemque secutus. Dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit; 415 dumque bibit, visae correptus imagine formae, spem sine corpore amat; corpus putat esse quod unda est. Adstupet ipse sibi vultuque immotus eodem haeret, ut e Pario formatum marmore signum. […] Se cupit inprudens et qui probat ipse probatur, 425 dumque petit petitur pariterque accendit et ardet. Inrita fallaci quotiens dedit oscula fonti! In mediis quotiens visum captantia collum bracchia mersit aquis nec se deprendit in illis! Quid videat, nescit; sed quod videt, uritur illo 430 atque oculos idem, qui decipit, incitat error. […] Non illum Cereris, non illum cura quietis abstrahere inde potest; sed opaca fusus in herba spectat inexpleto mendacem lumine formam perque oculos perit ipse suos; paulumque levatus, 440 ad circumstantes tendens sua bracchia silvas: “Ecquis, io silvae, crudelius, inquit, amavit? Scitis enim et multis latebra opportuna fuistis. Ecquem, cum vestrae tot agantur saecula vitae, qui sic tabuerit, longo meministis in aevo? 445
Et placet et video; sed quod videoque placetquenon tamen invenio; tantus tenet error amantem. Quoque magis doleam, nec nos mare separat ingens nec via nec montes nec clausis moenia portis; exigua prohibemur aqua. Cupit ipse teneri; 450 Nam quotiens liquidis porreximus oscula lymphis, hic totiens ad me resupino nititur ore. Posse putes tangi; minimum est quod amantibus obstat. […] Iste ego sum; sensi nec me mea fallit imago; uror amore mei, flammas moveoque feroque. Quid faciam? Roger anne rogem? Quid deinde rogabo? 465 Quod cupio, mecum est; inopem me copia fecit. O utinam a nostro secedere corpore possem! Votum in amante novum, vellem quod amamus abesset. Iamque dolor vires adimit nec tempora vitae longa meae superant primoque exstinguor in aevo. 470 Nec mihi mors gravis est posituro morte dolores; hic, qui diligitur, vellem diuturnior esset. Nunc duo concordes anima moriemur in una”. […]
Dumque dolet, summa vestem deduxit ab ora 480nudaque marmoreis percussit pectora palmis. Pectora traxerunt roseum percussa ruborem, non aliter quam poma solent, quae, candida parte, parte rubent, aut ut variis solet uva racemis ducere purpureum nondum matura colorem. 485 Quae simul aspexit liquefacta rursus in unda, non tulit ulterius; sed, ut intabescere flavae igne levi cerae matutinaeque pruinae sole tepente solent, sic attenuatus amore liquitur et tecto paulatim carpitur igni. 490 [...] Ille caput viridi fessum submisit in herba; lumina mors clausit domini mirantia formas. Tum quoque se, postquam est inferna sede receptus, in Stygia spectabat aqua. 505 |
Stanco per l'assiduità della caccia e per la calura, qui venne a sdraiarsi il giovane, attratto dall'aspetto del sito e dalla fonte; e mentre bramava di sedare la sete, altra sete in lui sorse; nell'atto di bere, afferrato dal ritratto di una bellezza intravista, sentì di amare una seducente parvenza senza corpo: crede che un corpo sia, quello che è acqua soltanto. Sbalordisce di se stesso e resta immoto con inalterato volto,
come una statua scolpita nel marmo di Paro. Ignaro, brama se stesso; mentre loda, è da se stesso lodato; mentre desidera, è desiderato: parimenti causa e scopo della sua passione. Quante volte diede baci vani alla fonte ingannatrice! Quante volte entro le acque immerse le brac-cia, che cercavano di avvolgere il collo intravisto, e in esse non riuscì a raggiungersi! Che sia quel che vede, gli è ignoto; ma di quel che vede egli arde e proprio l'illusione, che lo trae in inganno, invoglia i suoi occhi.
[...] Né la necessità di cibo, né la necessità di riposo riescono a distoglierlo da lì: bensì prono sull’erba folta, con sguardo mai sazio, contempla l’ingannevole bellezza, e, perduto nei suopi occhi, illanguidisce. Poi, levatosi per breve tempo, tendendo le braccia alla selva circostante: “ahimé, o selve" egli diceva, "chi mai amò in modo più spieiato? Voi certo lo sapete, giacché foste per molti opportuno ricetto. Ma, pur volgendo le esistenze vostre attraverso tanti secoli, ricordate voi, in così lungo tempo, qualcuno che così si consumasse? Egli mi piace e lo vedo; ma ciò che vedo e mi piace, non riesco tuttavia a raggiungere: io amo e un incredibile inganno mi imprigiona. E per mio maggior patire, né vasto tratto di mare, né lungo cammino, né monti, né mura di città con porte sbarrate, ci separano, bensì siamo disgiunti da poca acqua. Lui certo brama che io lo possegga: ogni volta che accosto i miei baci allo specchio delle acque, altrettante volte egli, sottoponendo la sua bocca, si protende verso di me. Crederesti che si possa toccare; quanto si oppone agli amanti è un nonnulla. [...] Ma costui sono io! me ne sono accorto e la mia figura riflessa non mi trae in inganno; io brucio d'amore per me; ispiro e patisco una ardente passione. Che fare? essere supplicato oppure supplicare? E poi, che cosa chiederò? L'oggetto del desiderio sta con me; una tal pienezza mi rende miserabile. Oh, se potessi mai separarmi dal mio corpo! Vorrei staccato da me ciò che amo: inaudito voto per un amante. Ormai la pena mi sottrae ogni vigore; alla vita mia non resta lungo tempo e mi spengo nel fiore degli anni. Non mi è dura la morte, se con la morte è mio destino lasciare tali sofferenze; vorrei piuttosto che più a lungo vivesse costui, che io amo.
[...] Appena vide il suo petto nell'acqua di nuovo fattasi specchio, più non resse, ma come le gialle cere sogliono liquefarsi a un calor lieve e le mattutine brine al tiepido sole, così egli si disfa, consumato dall'amore, e a poco a poco è corroso da un invisibile fuoco [...] Sull'erba verde egli posò il suo capo stanco; la morte chiuse gli occhi, che ancora contemplavano la bellezza del loro signore. E anche poi, quando fu accolto nella sede degli inferi, egli cercava di scorgere se stesso nella corrente dello Stige. (trad. E. Oddone)
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