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Il giorno più brutto della mia vita militare (28 marzo 1943) - di Giacomo Ferrera

 

I disegni che si trovano

in questa pagina sono stati

eseguiti dall'autore del testo

e rielaborati da Lucia Maria Izzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Non c'è ombra di dubbio: è il 28 marzo 1943. Lo stato di servizio reca, a tal proposito, la seguente variazione: prigioniero di guerra nel fatto d'arme di El Hamma (Tunisia).

Capita di vedere di tanto in tanto i programmi festosi delle agenzie di turismo e leggo: Mathmata, Gabes, Sfax, Djerba… Tutti nomi che mi ricordano polvere, sabbia, pidocchi, scorpioni, vipere, tifo petecchiale e altre delizie.

All'inizio del 1943 le unità giunte fresche dall'Italia o fortunosamente ripiegate dalla Libia erano ormai saldamente attestate sulla linea del Mareth, che partiva dal Golfo di Gabes e finiva nelle paludi salate e intransitabili degli Chott. Comandavo la VII Compagnia Arditi del 125º reggimento fanteria aviotrasportato “La Spezia”.

Qualche puntata offensiva da parte inglese, specie sul prolungamento della Val  Balbia, fu validamente rintuzzata; il primo attacco sferrato dagli Americani di Patton e dei Francesi dissidenti di De Gaulle sul fronte algerino si risolse in un disastro per loro. Tutto faceva sperare in un futuro migliore, ma...

Le paludi si prosciugarono, e ciò consentì all'VIII Armata Britannica di sviluppare un'ampio  aggiramento sulla nostra destra. Il nostro Comando di Armata ordinò il ripiegamento sulla linea dell’Uadi Akarit, che fu subito raggiunta dalla compagnia del capitano Cippitelli e dai controcarri del capitano Coli. Quel ripiegamento dimostrava l'inutilità dei nostri lavori enormi di fortificazione e la rinuncia al balzo in avanti per la riconquista delle zone perdute. Completò l'opera l'arrivo di due autocarri civili Lancia Ro sui quali alla meglio caricammo una compagnia con armi, bagagli e grappoli umani. Il ripiegamento avvenne di notte, poi di giorno e quindi la notte successiva, sotto la protezione di un ghibli provvidenziale che ci nascose alla vista degli osservatori aerei, benché lanciassero Bengala o volassero a bassa quota.

Dopo avere girovagato un po' qua un po' là secondo le indicazioni dei vari posti di controllo, districandomi in mezzo a una babele di italiano, francese e tedesco, con il mio carico zingaresco raggiunsi il reggimento che era già a Oglat Meterba,  all'incrocio di due piste desertiche nella zona di El Hamma.

Il Colonnello Comandante, senza ordini e senza orientamenti, con il reggimento ridotto a due battaglioni, cercò di riprendere il collegamento con qualche comando o unità, e spedì sei ufficiali in motocicletta nelle varie direzioni, mentre da sud arrivava un brontolio di tuoni che non erano di temporale. A me toccò andare proprio al sud, con una moto alce biposto pilotata da un milanese svelto come un gatto. Munito di una bella carta della Tunisia acquistata tempo addietro (si vede che in guerra le carte uno se le deve comperare in negozio...)  andai dritto dritto in mezzo a una colonna corazzata inglese che procedeva verso nord con i mezzi largamente intervallati. E lì dovetti fermarmi: la catena di trasmissione era saltata fuori dal suo alloggiamento e si era incastrata nel carter.

-  Passami il cacciavite. Non ti muovere, altrimenti perdiamo qualche pezzo. Via la bustina! Alza il bavero, moschetto in caccia e non parlare! Se ci chiedono qualcosa, lascia che parli io!

Avevo la risposta pronta: “Scouts! Dispatch driver". Il che era anche vero.

Riparai la moto, tesi bene la catena e ripartimmo verso nord protetti dal ghibli e mascherati dalla solita polvere, e nel tardo pomeriggio mi presentai al Colonnello.

-Identificate le divisioni contrassegnate dal rinoceronte e dal bufalo. Procedono in colonna verso nord ma sono ancora laggiù.

-Su sei ufficiali, siete tornati in due. Siamo circondati. Lei con la sua compagnia, si sistemi su quella collina e ci copra da Nord. Noi siamo qui all'incrocio, pronti a muovere: qualcuno dovrà ben arrivare!

Quell'incrocio di carovaniere era l'unico punto di riferimento per l'artiglieria nemica, che cominciò a sparare da lontano e con un tiro disperso. Ma il movimento della mia compagnia fu subito notato da un osservatore aereo, accolto a fucilate, e poco dopo arrivarono puntuali le prime granate da 88; sprofondavano nella sabbia, scoppiavano senza danno e producevano grandi nuvole di polvere. Da quelle nubi uscirono due greggi provenienti chi sa da dove con tanto di pastori, i quali incitavano le pecore a procedere di corsa verso est, cioè verso il Golfo di Gabes. Brutto segno! Il solito osservatore aereo scambiò certamente le povere bestie per truppe in movimento a piedi, e subito dopo ecco arrivare ben centrate alcune salve di batteria che fecero una strage. Domani mangeremo pecore..

Calò fosca la notte, cercammo di imbastire alla meglio una difesa mentre il rumore dei motori dei cingoli si faceva sempre più distinto: le colonne nemiche transitavano ad ovest rispetto a noi dirette verso nord. E noi? Non potevamo sapere che il comando divisione era in piena crisi perché il nostro Generale, con altri del comando, era deceduto nel corso di un mitragliamento aereo proprio mentre dirigeva il nostro ripiegamento..

Di buon mattino, il Comandante di Reggimento attendeva di essere rilevato assieme ai due battaglioni riuniti, e vide giungere non i Lancia Ro, ma alcune autoblinde inglesi provenienti da ovest che catturarono tutti senza colpo ferire, mentre noi avevamo già cominciato a sparare. La compagnia del Capitano Petrecchi fece in tempo a staccarsi dalla massa e puntò verso il mare per raggiungere la strada costiera, ma fu intercettata da altre autoblinde e catturata. Adesso tocca a noi. Fuoco su chi si avvicina, tirate sulle sentinelle che già custodiscono i nostri!

Su di una collina che fiancheggiava la nostra un gruppetto di osservatori nemici stava o dirigendo le operazioni o godendosi lo spettacolo. Un mitragliere del primo plotone prese bene la mira e fece partire un caricatore. Nessuno si alzò più. Ma cominciò l'avanzata lenta e inesorabile dei Bren Carrier e dei blindati. Le nostre pallottole li colpivano senza danno, con un suono come di grandine su lamiere, mentre i loro colpi radevano letteralmente il suolo e impedivano di alzare la testa ai soldati appiattiti a terra come fogli di giornale. Il primo plotone teneva, ma il secondo e il terzo erano investiti in pieno. Che fare? Avrei voluto avere con me Ginger, il Badalucco,  Limone e Panzales (1) per chiedere consiglio! Non l'avrei chiesto al Gallinaccio (2), il quale avrebbe contrattaccato... per fare la fine della gloriosa cavalleria polacca contro i Panzer tedeschi, no!

Ore 10.30. Prima considerazione: il nostro compito è quello di difendere il reggimento dal lato nord. Fatto, ma con che risultato!

Seconda considerazione fulminea: questa collina non è né il Grappa né il Montello. Dietro di me non c'è né la pianura veneta né la valle del Po, altri mezzi blindati corazzati pronti attesi a scattare, mentre quelli che ho davanti ormai ci sono addosso. E io ho almeno 40 soldati allo scoperto... Eroe sì, ma non sulla loro pelle!

Decisione: cessate il fuoco! Restate a terra!

Mi alzai in piedi, accolto da un paio di raffiche, e gridai in inglese: cessate il fuoco!

Yes! Mi rispose una voce dall’autoblinda più vicina, che per radio trasmise l'ordine alle altre. Il fuoco cessò d'incanto. Un sergente capocarro alzò lo sportello e con un salto mi venne davanti, seguito dall’equipaggio. Sulle prime mi scambiò per inglese, ma l'equivoco fu subito chiarito. Alcuni dei miei soldati si alzarono e vennero vicino a curiosare ed ascoltare quello che dicevo, meravigliati di sentirmi parlare in quella lingua strana.

-  Signor Capitano, abbiamo ancora le bombe, possiamo farli fuori e tagliare la corda con i loro mezzi!

- Non fate gli eroi e guardate quei carri con i cannoni puntati! Lasciate le munizioni e le armi, che sono servite a ben poco. Ho concordato che potete tenere gli zaini e le vostre robe.

Ma intanto un'autoblinda con la radio forse in avaria non aveva ricevuto l'ordine di cessare il fuoco, e arrancando sulla sabbia salì verso di noi, credette che fossero stati gli Inglesi ad arrendersi e sparò alcune raffiche sfiorando le teste per non prendere nel mezzo amici e nemici. I miei soldati si appiattirono al suolo, il sergente inglese mi prese per un braccio e mi mise al riparo con sé dietro il mezzo blindato. Quindi ci saltò dentro, disse alcune parolacce, si attaccò alla radio e finalmente fece zittire l'ultima mitragliatrice. Giunse un ufficiale medico polacco, che non parlava né inglese né tedesco, ma ci intendemmo lo stesso. Giunse un tenente cappellano protestante, e gli chiesi acqua per i soldati allucinati dalla sete. In seguito, l'acqua arrivò. Giunse un capitano dell'Intelligence Service, il quale voleva conoscere ad ogni costo dove e quando fossi stato in Inghilterra e dove avessi studiato. Inutile dire che non c'ero mai stato e che avevo studiato sotto l'alta guida del Badalucco, di Ginger, di Panzales e di Limone, ai quali mentalmente rivolgevo i sensi della mia profonda gratitudine per gli ammaestramenti ricevuti.

Giunse infine improvvisa una formazione italo-tedesca a bassa quota e puntò su di noi, ormai ammassati, pronta  a colpire. Ma l'aereo di testa si accorse subito che noi, da perfetti incoscienti, anziché disperderci o metterci al riparo, facevamo ampi gesti di saluto: batté le ali in segno di intesa e poi la formazione si aprì, ci girò attorno, cercò obiettivi che non mancarono in quell'enorme colonna che puntava a nord e quindi successe il finimondo: bombe che piovevano, mitragliamenti furiosi, autocarri che volavano in aria in fiamme, autocisterne incendiate, carri rovesciati, munizioni che saltavano, urla dei feriti, correre di ambulanze, suoni di sirene. Punto. E noi a gridare: dài che sei solo! Quello fu l'ultimo saluto dall'Italia.

Calava la sera. Noi fummo ammassati alla meglio per trascorrere la notte. Io fui chiamato da parte e venni affiancato due tenenti neozelandesi, peraltro molto corretti, per fare da interprete e tradurre le disposizioni che venivano impartite. Con tale incarico mi fu possibile muovermi qua e là, aiutare dove e come potevo e dare un ultimo saluto ai miei bravi soldati.

Ero stanco morto, avvilito, mortificato: questo il risultato di tutto il nostro impegno? Cosa pensano i soldati di me? Al buio, seduto sulla sabbia, mi capitò di sapere quel che pensavano e di ascoltare il dialogo che riporto.

- Ma guarda un po' se dovevamo arrenderci a quattro scatorci di autoblinde. Io avevo ancora due bombe…

- Te ce fai la birra col pugnale ai denti e le bombe a mano! Non hai visto quanti carri armati?

- È che… i inglesi… loro ci hanno i mezzi...... noi no.

- Ho una gran sete!

- Aspetta! L'acqua arriverà, l'ha detto il nostro capitano, l'unico che si fa capire: parla francese, tedesco, austriaco, inglese e anche polacco! Non hai sentito? E proprio con ufficiali che hanno studiato tanto dobbiamo perdere la guerra!

-È che… i inglesi… loro ci hanno i mezzi...... noi no.

I soldati parlavano di me, ascoltatore non visto. Io però con il medico polacco non aveva parlato nella sua lingua, ma in latino. Tuttavia quegli apprezzamenti peregrini confortarono un poco la mia amarezza e sprofondai in un sonno di pece.

Il giorno più brutto della mia vita militare durò tre giorni e tre notti. Sul campo, invero poco glorioso, rimase il mio pastrano sforacchiato e la borsa per carte topografiche - quella di Modena - tagliate in due da una scheggia. E poi? Ci attendevano i campi di prigionia di Alessandria, di Geneifa e di Heluan: il posto al sole che ci era stato promesso.

 

Giacomo Ferrera



(1) Si tratta dei soprannomi dati dall’autore ad alcuni dei suoi più “folkloristici” insegnanti dell’Accademia militare di Modena… soprannomi che sono tutto un programma.

(2) Idem come sopra.