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Alla frontiera sulle Alpi Marittime, 1938-39 - di Giacomo Ferrera

 

 I disegni che si trovano

in questa pagina sono stati

eseguiti dall'autore del testo

e rielaborati da Teresa Ducci,

Lucia Maria Izzo, Liliana Manconi,

Sebastiana Schillaci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Divagazioni e piacevolezze varie sulla vita trascorsa su quei monti, non disgiunte da spunti di alta poesia e da considerazioni estremamente serie e drammatiche, riguardanti il nostro ufficiale medico Ugo Dachà, chiamato a servire la patria non in armi, ma in camice e bisturi.
Ogni riferimento a persone, a cose e a fatti non è puramente casuale, ma è fin troppo reale, di una realtà che supera la fantasia.

 

Come tenente di primo canto in una guarnigione che sonnecchiava sulla Riviera ligure, ero uno che si dava da fare e mal me ne incolse. Difatti, alla fine dell'anno 1938, il Ministero ordinò di trasferire alla Guardia di Frontiera (la G.a F.) ufficiali giovani e in possesso di determinati requisiti. Naturalmente, del mio reggimento, tale "ambito" onore toccò proprio a me quale premio per lo zelo dimostrato, mentre i colleghi tirarono un respiro di sollievo. La sigla di questo corpo dell'esercito era proprio la G.a F. Neanche a farlo apposta la Gaffe è il personaggio comico di un'operetta molto in voga a quell'epoca: "il Paese dei Campanelli" di Lombardo e Ranzato. Ma il nostro Ministero, impermeabile cronico al senso del ridicolo, non s'era avveduto di tale stonatura.

Destinato sulle Alpi Marittime, tra il Col di Tenda e il Colle della Maddalena, mi presentai al comando del secondo settore di copertura che aveva sede a Cuneo. Il colonnello comandante mi ricevette seduto sulla sua scrivania totalmente priva di carte e di pubblicazioni, sulla quale sonnecchiava un gatto. Al cospetto di questo animale mi dovetti sciroppare un discorso lungo e inconcludente standomene rigido sui tre attenti: ero stato lavorato in serie ed ero uscito dalle catene di montaggio dell'Accademia militare di Modena. Il colonnello no!

Partii da Cuneo con un trenino a scartamento ridotto che pareva proprio quello delle comiche americane, e mi guardai attorno per vedere se con me fossero saliti Ridolini, Fatty e Buster Keaton. Non c'erano! Un po' deluso, raggiunsi borgo San Dalmazzo. Qui salutai l'ultimo lembo di pianura e gli ultimi segni di civiltà; con una corriera vecchia e sgangherata raggiunsi Valdieri, sede del Sottosettore di copertura. Il paese era coperto dai ghiacci eterni e dalle nevi perenni. Qui il Maggiore comandante, che di solito era reperibile nell'osteria del paese o nella piazzetta antistante e soltanto quando era debitamente carburato, mi accolse con calore e mi impartì ordini chiarissimi, dando nel contempo, al suo attendente Baudino, le opportune istruzioni per la cena:

- Lei assume il comando del gruppo Caposaldi di San Giacomo di Entracque nella zona di Monte Gelas. L'incarico sarebbe per un capitano, ma qui occorre gente giovane e sveglia, altro che quei pansùn là! Si ricordi bene questo: a me interessa che i soldati conoscano l'ambiente da padroni, che siano sempre pronti a operare con qualunque tempo, di giorno e di notte...... neh, Baudìn! Stasera prepara la bagnacauda con i cappucci tagliati fini fini fini... che siano capaci di usare bene sci, ramponi da ghiaccio e racchette da neve... che sappiano sparare da veri maestri... muovere veloci a sparare bene... La tattica l'è tutta lì! Neh, Baudìn! Pulisci bene le acciughe mi raccomando, e poi cottura fuoco lento lento rimescolando bene... vede chièl l'è giùv... (traduzione: lei è giovane) tenga presente quel che ho detto e si ricordi che tutte le àutre dispusissiùn, i regolamenti, le carte, le circulari sono tutte balle del Stat Magiùr!

Dopo tutte queste raccomandazioni veramente sagge, enunciate con la caratteristica "danda" torinese, mi affidò all'aiutante maggiore in seconda che era il Tenente Invernizzi e tornò a occuparsi di acciughe, di cappucci tritati e di vino barbera.

Il tenente proveniva dai sottufficiali ed era una cannonata. Poche volte mi capitò di trattare con un collega così pronto, così sveglio e così preparato. Aprì le carte topografiche della zona e illustrò con chiarezza e con perizia i miei compiti operativi: 25 km di frontiera in linea d'aria, alta montagna, quote oltre 3000 m, il tutto per me solo! Non sono superstizioso, ma ancora oggi mi chiedo chi sia stato colui che diede a ogni località nomi così lugubri. Eccoli quei nomi: Cima del Diavolo, Peirabròc, la Maledìa, il Gran Muraiòn, Monte Gelas, Fremamorta, Passo delle Rovine, Monte Matto, Lago delle Rovine, Passo del Ladro, Lago dei Tre Colpas, Monte Piagù, Passo del Chiapus, Cima di Malariva, Lago Nero, Testa Malinvern... e si potrebbe continuare. Ma un lato positivo c'era: tutto il personale che avevo era reclutato di massima nell'Italia settentrionale, eravamo tutti giovani, scapoli, esuberanti e pieni di vita. Qui non si vedevano, come altrove, le facce badiali, gli addomi prominenti e i soliti che tenevano "mugliera e piccirilli": l'alta montagna selezionava in maniera spietata. Quassù riuscivano a sopravvivere e a operare soltanto marciatori, scalatori, sciatori instancabili.

Fra questi, primeggiava l'ufficiale medico Ugo Dachà, divenuto poi chiarissimo professore a Genova. Le nostre occasioni di incontro furono rare e fugaci perché io dovevo starmene sempre lassù, pronto a salvare l'Italia... ma mi sarebbe piaciuto  coltivare l'amicizia con questo dottore che proveniva dalla mia città, dal mio stesso ginnasio-liceo, il prestigioso Colombo di Genova. Ricordo la sua figura di atleta agile e snello, il suo bell'aspetto di ragazzone gioviale ed estroverso, la simpatia che suscitava in tutti noi: insomma, egli era "uno dei nostri". Dove lo vidi l'ultima volta? Mi pare sulla neve, in mezzo ai soldati, con gli sci ai piedi, con le mani ai fianchi, con la testa alta, con il volto teso verso le montagne come per annusare il vento e poi giù in discese spericolate! Come dottore, aveva molto tempo a disposizione perché noi tutti scoppiavamo di salute e avevamo una vitalità da squali. Egli perciò s'era assunto pure l'incarico di trasformare in sciatori i soldati di stanza a Valdieri, molti dei quali provenienti dal meridione d'Italia e del tutto incapaci di muoversi sulla neve con quegli strani arnesi attaccati ai piedi.

Ma un brutto giorno per l'ufficiale medico Dachà suonò la diana, proprio nel momento meno indicato, proprio nell'ambiente descritto dal Carducci nell'ode "Piemonte" che pareva scritta su misura per tutti noi quassù.

Sulle dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga,
dai ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti:
ma dai silenzi dell'effuso azzurro
esce nel sole L'aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volto solenne.

il quadro è completo, non manca proprio nulla: lassù si svolgeva la nostra vita. Ma andiamo con ordine.

Lassù saltavano i camosci che vivevano sui monti come noi. Uno di questi animali, atterrito da un fulmine durante un temporale, entrò a testa bassa nella tenda del tenente Torti e ne uscì recando sulle corna brandelli di tela svolazzanti. Lassù tuonavano le valanghe: gli enormi ammassi di neve e di ghiaccio scendevano proprio rotolando con un fragore assordante che provocava, come in una infernale reazione a catena, la ripetizione del fenomeno con un crescendo spaventoso. Talune valanghe arrivavano a valle così veloci da risalire gran parte del pendio opposto. Lassù, alla base di quei ghiacciai che facevano scintillare le alte vette, si formavano laghetti di un bel colore azzurro; il tenente Baroni, tentato dalla fresca purezza di quelle acque gelide, si liberò di ogni indumento è s'immerse per farsi passare le caldane. I soldati pensarono che ci rimanesse secco, ma ciò non avvenne: pare che, invece, l'acqua cominciasse a fumare... Lassù si formavano le insidiose slavine di neve fresca e farinosa: si staccavano dalla montagna come un lugubre sudario di morte, scorrevano a valle come un fiume in piena e investivano ogni cosa in un turbine di nuvole candide. Lassù, dove le aquile si vibravano in volo, andavo a pattugliare il confine con soldati addestratissimi: della montagna conoscevamo i pericoli e ben sapevamo come guardarcene. Quel compito rischioso veniva affidato a me e a sottotenenti dai garretti d'acciaio, come Moizo, Palazzetti e Oliviero. Lassù, in quel microcosmo, nulla mancava di ciò che fosse polare: c'erano l'Artide, l'Antartide, l'Alaska, la Groenlandia e la Siberia; perfino l'Irlanda era degnamente rappresentata; alle Terme, getti di vapore ed acqua ad alta temperatura scaturivano dalla viva roccia in mezzo a pittoresche incrostazioni di ghiaccio.

Invece laggiù a Valdieri un nostro conducente, uno dei tanti meridionali in fondovalle, rientrò in caserma tutto lacero e sanguinante e così disse con aria di trionfo al sottufficiale di cucina

- Signor Sergente Maggiore, nella carretta ce sta nu bel tacchine selvatiche che àggie acchiappato io personalmente! Che facimme 'n arrosto con li ca...!

Con questo, voleva forse indicare anche il contorno... ma il presunto tacchino selvatico era invece un'aquila reale, catturata mentre tentava di riprendere il volo da uno strato di neve farinosa: tirava beccate e colpi di artiglio come una furia.

Ancora laggiù, a Valdieri, arrivò un messaggio drammatico dal gruppo Caposaldi di Terme, che era rimasto senza medico: un soldato gravissimo, da operare possibilmente sul posto, o comunque da sgomberare; ma come provvedere? Eravamo nell'anno 1939, alla fine di marzo o ai primi di aprile, nel tempo più pericoloso perché segna il distacco delle grandi valanghe. L'ufficiale medico Dachà prese la sua borsa e disse:

- Parto subito!

Se poi non abbia detto e agito proprio così la cosa non ha molta importanza; io non ero laggiù a vedere o a sentire. Fatto sta che egli partì da Valdieri con la vetturetta del comando e a mezzogiorno raggiunse l'ultimo centro quasi abitato, Sant'Anna di Valdieri; qui si incontrò con gli sciatori mandati come guide dal gruppo Caposaldi di Terme, lasciò l'autovettura, mise gli sci ai piedi e sotto un sole accecante cominciò a salire di buona lena a seguito di chi gli apriva la pista sulla neve fresca. Il pericolo era nell'aria, ma bisognava proseguire. Il percorso era segnato da una linea telefonica palificata, con i cavi interrati nelle zone di possibe caduta valanghe. Detto per inciso, questo accorgimento tecnico non evitava affatto le interruzioni ai telefoni, il che si traduceva nel vantaggio di non ricevere ordini superiori, troppo poco graditi in pace, ancor meno in guerra.

Mentre il gruppetto degli sciatori, superati i Tetti Niòt, procedeva "l'un dianzi e l'altro dietro come i frati minori fanno per via", con tanto di medico al seguito, ecco il boato premonitore, un tuono scrosciante, agghiacciante e prolungato che aumentava di intensità.Uno sguardo verso le cime incombenti: fumo e movimento di masse nevose sul Monte Matto, metri 3088. Un'occhiata ai pali della linea telefonica: spariti, perché qui i cavi sono interrati. Quindi la valanga si riversa proprio qui! Via tutti in avanti fino al primo palo, arrancando colla forza della disperazione, sostenuti da scariche di adrenalina, mentre i boati diventano assordanti e mentre la terra trema. Il medico, superata la zona di pericolo, si addossò a una parete del monte e prese fiato. Vide precipitare a poca distanza masse immani di neve, di ghiaccio e di macigni, con un rumore spaventoso e con violenti spostamenti d'aria. Poi, il silenzio. Tutta la valle del Torrente Gesso della Valletta - che non è affatto una valletta - ricolmata e bloccata. Nell'estate successiva, quando la strada venne riaperta, fu più conveniente scavare una galleria nel ghiaccio. Comunque, sciatori e medico riuscirono a proseguire, confortati all'arrivo da un fiasco di Chianti, offerto da due militi della Confinaria.

In quel tempo io comandavo il gruppo Caposaldi di San Giacomo, confinante con il gruppo delle Terme e da quello separato da un'imponente catena di montagne, tutte con le loro brave valanghe: la Maledia, il Finestrelle, il Lombard, il Gran Muraiòn... Le notizie di quell'avventura mi furono recate dalle pattuglie di sciatori i quali, passando tra una valanga e l'altra, mi collegavano con il mondo.

- Un soldato alle terme sta morendo per un attacco di appendicilite.

- C'è andato il medico Dachà da Valdieri e l'ha operato su di un tavolo di casermaggio...

- Non sul tavolo, ma su di una branda che lui ci aveva la pendicite...

- No jera appendicolite, mona! Ma una gamba rotta che g'ha fato infessiòn con la setecemia...

- Intanto che cadeva la valanga del Matto, il dutùr  l'è passato l'istèss con un spostamento d'aria che ci ha fatto fare a lui un volo di non so quant mèter, ma l'è caduto sulla neve fresca che no se g'ha fatt nagòtt.

- Ci ha proprio del coraggio quel dutùr là!

- Coraggio e cu...! Perché quella valanga là non perdona minga!

- È finita che dopo l'operassiùn l'han purtàilu a l'ospedale perché insopportabile...

- Intrasportabile, baùcco!

In realtà, il soldato era affetto da una grave forma di setticemia. Causa: un flemmone esteso a tutto un arto inferiore, dovuto ad artrosinovite purulenta di un ginocchio, esito di un versamento ematico in seguito a un trauma trascurato. Complicata la faccenda! Dovevano capitare proprio tutto quel poveraccio... il medico Dachà svuotò la notevole quantità di pus ritenuta nell'articolazione del ginocchio, bendò e predispose per il trasporto in ospedale. Fece attrezzare una barella su sci e attese saggiamente che tutta la valle fosse in ombra: il gelo avrebbe bloccato le masse di neve ancora in movimento e avrebbe così diminuito il pericolo di altre valanghe. Il viaggio di ritorno fu compiuto da sei persone: il medico, il paziente legato su barella "uomo-trainata" e quattro soldati "tuttofare" appartenenti a una specie oggi estinta.

A Sant'Anna trovarono ad attenderli una autoambulanza che trasportò il malato all'ospedale militare di Savigliano. Là un bravo chirurgo intervenne subito e, nel tempo dovuto, dimise il soldato completamente guarito. Questi, pur con la sua disavventura, era nato con la camicia. Ancor oggi mi chiedo come abbiano fatto quei cinque con un malato in barella a superare la zona invasa dagli immani cumuli di ghiaccio, di neve e di massi scaricati a valle dal Monte Matto: sono imprese da esploratori polari. La grande valanga del Monte Matto scarica di colpo quantità di neve di ghiaccio grandi come 100 cattedrali che scorrono veloci, senza ostacoli, senza freni, dalla vetta al fondovalle. Lungo il suo percorso, che è fortemente inclinato e che si estende per circa 2000 cinquecento metri, raccoglie gli accumuli di almeno sette valloni ripidi confluenti. Secondo gli esperti, si tratta di una valanga di tipo himalayano, una delle più lunghe del mondo se non la più lunga, perché rotola senza freni o interruzioni, e proprio in quel giorno e a quell'ora doveva cadere!

L'avventura dell'ufficiale medico Dachà e dei suoi uomini costituì oggetto di discorsi e di apprezzamenti nelle nostre lunghe notti in montagna: ne parlavamo noi, ne parlavano i soldati con ammirazione e c'è chi ancora oggi ricorda quell'impresa che onora chi ne fu protagonista, e ben la ricordo pure io.

Dachà fu il primo di una lunga serie di ufficiali medici coraggiosi e abili che mi fu dato di conoscere: essi condivisero le nostre peripezie su tutti i fronti: incuranti della pioggia di ferro e di fuoco che cadeva dal cielo, medicavano, amputavano, tamponavano, suturavano, bendavano imperterriti, come se tutto quanto avveniva lì intorno non li riguardasse. Prestavano la loro opera spesso in condizioni igieniche nefande e dovunque capitasse: sopra e sotto il mare, nelle sabbie infuocate, nel gelo delle steppe, nei campi di concentramento, nei lager, nei gulag. Quando presero la penna in mano, scrissero capolavori come "Centomila gavette di ghiaccio": oltre che scienziati valenti, erano anche umanisti eruditi. Questi erano gli ufficiali medici della mia generazione. Imparai a conoscerli e ad ammirarli fin da quand'ero lassù, "sulle dentate scintillanti vette".

 

Giacomo Ferrera, gennaio 1993