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Prigionia in Africa (1943-1945) - di Giacomo Ferrera

 

I disegni che si trovano

in questa pagina sono stati

eseguiti dall'autore del testo

e rielaborati da Teresa Ducci, 

Lucia Maria Izzo, Liliana Manconi

e Sebastiana Schillaci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo I : La cattura

A - Premessa

Diverse lingue, orribili favelle...
(Dante, Inf. III, 25)

Alla fine degli anni 30 la situazione si complicava sempre più. Fu allora che ripresi a ripassare il francese, l'inglese e il tedesco pensando che una di queste lingue mi sarebbe servita. Fui previdente, perché mi servirono tutte e tre. Non valeva la pena di studiare l'arabo sia perché mancava il tempo, sia perché in tutta l'Africa Settentrionale erano gli arabi che si ingegnavano a farsi capire da noi. Difatti il turista che si fosse avventurato per le vie di Tunisi avrebbe sentito i giornalai che strillavano: "U LIONE, U LIONE!" e avrebbe pensato con viva apprensione a una belva pericolosa in libertà. Invece si trattava di un giornale, scritto in italiano, la cui testata era "L'UNIONE". Lo stesso turista che dalla Tunisia si fosse poi recato a diporto fino in Egitto avrebbe incontrato lungo il suo cammino i venditori ambulanti che esibivano la loro merce gridando: "OFFAPANU! OFFAPANU!". Chiarissimo: vendevano uova (offa) e pane (panu). Quel che più interessa e comprenderci tra popoli diversi: tutto qui.

Per quel che concerne gli avvenimenti riferiti al travagliato anno 1943, questi furono annotati in un calendario che ancora conservo, sfuggito a tutte le perquisizioni. Interessanti le previsioni che vi sono settimanalmente riportate: le leggevo ogni volta ai miei ufficiali, e anche se la voglia di ridere era poca, quel calendarietto ci teneva e compagnia con i santi del giorno, le semine stagionali e i consigli per i lavori di campagna. Dalla fine del 1943 in poi riuscimmo organizzarci alla meno peggio anche per la misura e per l'impiego del tempo.

Ma seguiamo lo sviluppo degli eventi.

 

B - La cattura: domenica 28 marzo 1943 ( San Sisto III papa)

"tempo ancora variabile, poi qualche giornata godibile"
(dall'almanacco di Chiaravalle)

Fummo catturati in piena crisi di ripiegamento dalla linea difensiva del Mareth (confine libico-tunisino) a quella dell'Uadi Akarit (Tunisia). Eravamo gli ultimi a ripiegare e fummo fagocitati dall'VIII armata britannica avanzante con mezzi blindati e corazzati. La cattura avvenne in località Oglat Meterba, nella zona di El Hamma, mentre attendevamo i mezzi di trasporto... ma non sapevamo che il nostro comandante di divisione Generale Pizzolato era morto durante un mitragliamento aereo proprio mentre dirigeva le operazioni.

Gli inglesi cercavano un interprete, trovarono subito me e mi dissero che cosa dovevo riferire a tutta quella gente riunita. Io feci il giro e ripetei bene gli avvertimenti ricevuti mentre stavamo fermi e riuniti; attorno a noi una enorme colonna dell'VIII armata britannica procedeva verso nord con formazioni piuttosto serrate; con la sua larghezza occupava quasi tutto il vasto piano. A un tratto apparve di sorpresa e a volo radente una formazione aerea italotedesca: erano bombardieri e caccia. Gli aviatori non ci fecero a pezzi perché noi soli - per di più incoscienti - rimanemmo riuniti facendo ampi gesti di saluto, mentre gli altri si disperdevano di corsa e cercavano riparo. Gli aviatori capirono. Fu l'intervento aereo più devastante che io abbia mai visto: ogni bomba andava a segno con effetti spettacolari, i caccia si avventavano verso terra con mitragliamenti furiosi... tutto durò due o tre minuti. La formazione si ricompose e sparì verso nord, non senza averci fatto prima un cenno di saluto battendo le ali. Azione perfetta!

Scese la sera e poi calò la notte. Pernottammo nella zona: non c'erano né alberghi nei ristoranti. E adesso non chiedetemi di visitare la Tunisia come turista!

 

C - La marcia della sete: lunedì 29 marzo 1943 (Sant'Eustachio)

I ruscelletti che da' verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno...
(Dante, Inf. XXX, 64-65)

Nella mattinata ci mettemmo tutti in marcia verso sud, debitamente scortati affinché nessuno di noi abbandonasse la via. Io marciavo con due tenenti neozelandesi, responsabili della colonna, pronto a fare da tramite tra loro e i prigionieri come me. Passò mezzogiorno, si giunse quindi al tardo pomeriggio. Cammina, cammina... come nelle favole. L'ultimo di noi che riuscì a mangiare qualcosa due giorni prima era il tenente Scarpati: una minestra che cotta in una soluzione di salnitro, fosfati e rifiuti organici di cammelli in transito. Tale era l'acqua delle pozze usate per la cottura. Mentre stava mangiando tutta quella robaccia, e gli pareva ancora poca, fu preso in pieno da una cannonata che sfasciò tutto quanto c'era attorno; ma egli terminò il suo pasto con distacco e con signorile distinzione, tenendo in mano la gavetta, che non aveva mollato, perché il tavolino pieghevole era volato via in pezzi. Alzò appena il capo per dire: granata da 88. Si narra che anche Napoleone in circostanze del genere abbia tenuto un comportamento simile, ma sono tutte leggende connesse con il culto della personalità.

Ora noi, appena catturati, non ci aspettavamo un lauto pranzo e tanto meno bibite fresche: bisognava marciare verso sud, in pieno deserto, con vento contrario (il polveroso ghibli) che aumentava la sete e il disagio. Non sentivamo la fame ma la sete.

Di tanto in tanto, qua e là, rovine romane: erano tutti frantoi di olive, perché al tempo di Augusto la zona era coperta da oliveti rigogliosi e non da dune di sabbia e polvere. Poi, nel V secolo, vennero i Vandali e sistemarono tutto; così il deserto avanzò. Bel servizio, Vandali!

Alla sera finalmente alt, in un accampamento neozelandese. Sistemazione per la notte: riuniti, all'addiaccio. Un po' d'acqua per tutti, finalmente, e perfino qualche galletta. A me i due tenenti offrirono una tazza di tè, che versai in buona parte nella gavetta del soldato più vicino, e una scatoletta di salsicce. Solo la decenza mi impedì di mangiare anche il barattolo.

Calò fosca la notte: terminato l'ultimo giro per le solite raccomandazioni, feci ritorno dai due ufficiali. Uno di essi aveva versato un bicchiere di benzina sulla sabbia e aveva dato fuoco. Attorno quella fiammella ci sedemmo in circolo, i due tenenti, un sergente bonaccione e due o tre soldati. Cantarono con voce sommessa qualche canzone della loro patria lontana, e chiusero i loro canti con una melodia fin troppo nota: "sul mare luccica/ l'astro d'argento..." Le parole erano diverse, ma la musica era proprio quella, ed erano giunte fin laggiù, nella Nuova Zelanda.

La fiammella si spense. Good night! Good night! Ci coricammo sul posto, stesi sulla sabbia. Sentii il parlottare sommesso di alcuni dei miei soldati e poi piombai in un sonno di pece.

 

D - L'intelligence Service entra in azione

Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!
Ariosto, Orlando furioso, canto I

L'indomani, martedì 30 marzo, San Zosimo (ma dove li vanno a pescare questi nomi!) Riprendemmo la marcia verso sud; fu meno lunga e meno faticosa, anche perché il tempo stava cambiando. Lungo il cammino traversammo le postazioni già tenute da una nostra batteria: pezzi smantellati dai colpi in arrivo, brandelli di uniformi, cassoni rovesciati o squarciati, terreno butterato da crateri, materiale sparso... era una nostra batteria da 100/17, gittata inferiore all'88 britannico.

Nel tardo pomeriggio sostammo in una località senza nome; gli ufficiali vennero divisi dai soldati e raggruppati in uno spiazzo recintato da un reticolato più simbolico che di ostacolo. Fuori, le solite sentinelle. I neozelandesi mi salutarono con cordialità: good bye, good luck, captain! Ripartirono verso nord... il generale Freyberg li condusse fino a Trieste, dove giunsero nel maggio del 1945.

Calò ancor più fosca la notte e si mise a piovere, là dove non piove mai, ma questo non ci impedì di dormire saporitamente sotto l'acqua e con un freddo cane, coricati sulla solita sabbia. Al mattino di mercoledì 31 marzo, Sant'Amos profeta, il primo sole ci asciugò subito.

Arrivò un automezzo militare guidato da un capitano inglese che chiese di me, mi fece prendere posto accanto a sé e poi partì in direzione sud. Eravamo soli; tra noi due, sul sedile, una pistola Smith and Wesson che giudicai scarica, perché egli non appariva così scemo da mettermela a portata di mano pronta per l'uso quindi, inutile fare gesti eroici fuori tempo e fuori luogo, sleale approfittare di chi si fida. Mi chiese quando e dove fossi stato in Inghilterra, e io faticai parecchio per fargli capire che non c'ero stato mai, che avevo studiato inglese prima a scuola, poi con i dischi e infine con buone letture. Quando gli citai Conan Doyle, Rudyard Kipling, Jerom K. Jerome, si illuminò: erano i suoi favoriti. Mi parlò con nostalgia dell'Inghilterra, dove c'era la sua ragazza; gli dissi che in Italia di ragazze ne avevo sei, purtroppo sparse e lontane, il che era vero.

- Difficult to choose! Scelta difficile, mi rispose.

Volle sapere come mai non avessimo combattuto; risposi che l'unico a farlo ero stato io con la mia compagnia. Non eravamo schierati per combattere, ma per proseguire verso l'Uadi Akarit; l'VIII armata britannica era giunta prima del previsto. Egli se ne compiacque, io no. Informatissimo sulla situazione italiana, mi comunicò che Ciano, già ministro degli esteri, era stato declassato ad ambasciatore presso il Vaticano. Risposi che lo sapevo e che come militare non mi interessavo affatto di politica. Con molto tatto e con fine diplomazia mi fece capire che avrebbe gradito la mia collaborazione; io, con tutta chiarezza, risposi che ero fedele al mio Re così come egli era fedele al suo. La risposta gli piacque. Aggiunsi che quella guerra fra bianchi in Africa avrebbe segnato la perdita delle colonie per noi e per tutti, compresa l'Inghilterra. Si fece pensieroso e tacque.

Intanto sulle piste transitavano in senso contrario autocolonne di rifornimenti, di reparti e di mezzi d'ogni genere.

Arrivammo a Ben Gardan, villaggio arabo polveroso squallido, e ci fermammo davanti a un campo provvisorio per prigionieri in transito. Il capitano mi fece scendere, mi accompagnò all'ingresso, parlottò con il personale di guardia e poi si rivolse a me: ci salutammo con lo stile di due gentiluomini che avrebbero anche potuto diventare amici se non li avesse divisi quella guerra sciagurata. Mi disse che si sarebbe ricordato di me; quindi ripartì verso nord con un ultimo gesto di saluto.

Da quel momento, il contatto con soldati umani, civili e cavallereschi fu troncato; ero nelle loro retrovie, fra imbostati, maneggioni e carogne. Il poco onorevole primato toccava ai francesi "gaullisti"; seguivano i levantini e infine gli stessi inglesi, nelle cui formazioni militava di tutto un po'.

 

Giacomo Ferrera