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Prigionia in Africa (1943-1945) - di Giacomo Ferrera
I disegni che si trovano in questa pagina sono stati eseguiti dall'autore del testo e rielaborati da Maria Pompea Coluzzi, Teresa Ducci, Lucia Maria Izzo, Liliana Manconi e Sebastiana Schillaci
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Capitolo II
: I luoghi A. A Ben Gardan: 31 marzo-2 aprile 1943 Le guardie mi accompagnarono in un recinto vuoto: ero il primo arrivato, ma non ci tenevo affatto. Nell'angolo, in fondo, c'erano le cucine in piena attività: segno di arrivi imminenti. Un soldato cuciniere, prigioniero anche lui, mi venne incontro e mi salutò con un calore che mi parve sospetto. Era ligure e chiacchierone; le troppe domande che poneva mi resero subito cauto nel rispondere perché compresi che si trattava di un informatore, peraltro piuttosto ingenuo. Conversammo nel nostro dialetto e diedi sempre risposte di comodo pensando: e adesso vai a riferire tutto ai tuoi padroni! Mi diede da mangiare e da bere a volontà e insistette perché mi servissi ancora: ne avevo bisogno! Poco dopo arrivò una autocolonna di prigionieri, quelli che mi ero lasciato dietro, assieme a numerosi tedeschi. Riuscii a far venire con me i miei ufficiali e li resi subito cauti nei riguardi degli "informatori". A loro volta, ebbero da mangiare e da bere in abbondanza, serviti da alcuni soldati fin troppo premurosi. Alla sera cenammo tre volte senza battere ciglio. Da quel giorno, rimanemmo sempre uniti e ci aiutammo a vicenda fino all'ultimo, uno per tutti e tutti per uno. Da allora li ricordo sempre. Essi sono:
a noi si unirono, per attrazione:
A Ben Gardan cominciammo a subire le prime perquisizioni, con spostamenti da un recinto all'altro sotto il sole e saltando qualche pasto, ma noi avevamo già fatto il pieno. Nel corso di queste operazioni ci tolsero:
I nostri detentori avevano modi rozzi e arroganti, con l'aria di superiorità del vincitore sul vinto. Venivano dalla Rhodesia, dal Kenia e dal sud Africa ed erano coltivatori abituati a trattare con i negri delle loro piantagioni. Ve ne accorgerete quando i Kikuyu, i Cafri, i Baluba, i Masai e i Mau-Mau insidieranno pesantemente le vostre famiglie, incendieranno le vostre belle residenze che spiccano tutte bianche in mezzo al verde e vi appenderanno agli alberi al suono dei tamburi e al clamore delle loro danze tribali, perché la nemesi storica esiste e funziona. B. Da Ben Gardan a Tripoli: sabato 3 aprile, San Pancrazio "intemperie d'aria riguarderanno in qualche plaga Le seminagionI. Notizie gioiose per noi e desolanti per gli altri" (Dall'almanacco) Adunata "con tutti li robi": si parte con "la camiona"! Ci attendeva una colonna di autocarri Dodge sui quali prendemmo posto. Entrammo in Libia, attraversammo Zuara e Sabrata rese verdeggianti dal lavoro dei nostri coloni. Li vedemmo schierati ai lati della strada: ci salutarono con tutto lo slancio, ma dallo sguardo traspariva una tristezza infinita. Ci gettarono frutta e sigarette: una ragazza me ne lanciò un pacchetto: erano AOI, forse le ultime che aveva. Quella povera gente mi fece una gran pena e suscitò in me un senso di vergogna. Cosa avevamo fatto noi per loro, che in noi riponevano le ultime speranze? Alla periferia di Tripoli fummo introdotti nel solito recinto, sottoposti alle stesse perquisizioni e agli stessi controlli. Alloggiamo in una delle enormi tende già pronte; La nostra fu battezzata "il caravanserraglio". La solita sabbia fu il nostro letto: ci eravamo abituati. È morbida e si adatta alla persona. C. Da Tripoli ad Alessandria. Lunedì 12 aprile, San Costantino V "fase lunare che porterà le prime burrasche, ma senza danni. L'influenza continua il suo lavoro" (Dall'almanacco) Adunata "con tutti li robi": si parte con "la camiona"! Ci attendeva la consueta colonna di autocarri Dodge con i quali raggiungemmo il porto di Tripoli. Prima di partire, la solita iniezione al braccio o al petto fatta con aghi grossi come chiodi. La chiamavamo "iniezione antifuga", perché le fiale antitifiche ecc. provocavano forti reazioni con febbri debilitanti. Con questi medicamenti in corpo, a nessuno veniva la voglia di scappare perché ci voleva tutta a stare in piedi. Con questa sottile astuzia, giustificata sotto il profilo sanitario, il personale addetto alla scorta e alla sorveglianza poteva essere ridotto al minimo. La crociera nel Mediterraneo fu fatta stando ammucchiati nella stiva di un piroscafo da carico. Ai piedi della scaletta c'era una sentinella scozzese ben pasciuta e soddisfatta; accanto aveva un bugliolo, quello che i romani antichi avrebbero chiamato vomitatorium, non ancora usato. I soliti irrequieti dissero che bisognava fare qualcosa per trascorrere il tempo in allegria. Uno di questi si alzò, si avvicinò al bidone e mimò il vomito più fracassone che io abbia mai sentito. Il povero scozzese impallidì, fece le boccacce, cominciò a dondolare, si chinò sul bidone e vomitò anche l'anima. La scena fu ripetuta a ogni cambio di sentinella, con risultati eccellenti. Un marinaio
scese la scaletta e domandò se qualcuno di noi gradisse salire in
coperta per fare un incontro amichevole di pugilato. Uno di noi si offrì
per l'indomani, a condizione di avere qualcosa da mangiare per mettersi
in forze, e venne accontentato. La navigazione procedeva, si navigava in convoglio. Al largo di Tobruch, allarme sommergibili e qualche cupo rimbombo. Grande agitazione e paura in coperta. Noi tranquilli e contenti, perché erano siluri italiani...Stavo male: peregrinando da un campo all'altro per la gran sete avevo bevuto nafta da un bidone ritenendo fosse acqua. Per di più, ero stato morsicato da uno scorpione. Mi ritrovai ricoverato nell'infermeria di bordo e lì rimasi fino ad Alessandria, dove arrivammo venerdì 16 aprile, Santa Giulia martire. D. ad Alessandria "giornate chiare, serene e godibili" (Dall'almanacco) il campo di concentramento era su un rilievo dal quale si vedeva la città e la rada. Sostammo colà dieci giorni, durante i quali cercammo di ripulirci e di rimetterci in ordine. Per raderci, usammo una lametta che un tenente artigliere custodiva nel taschino: gli era servita per aguzzare la matita quando calcolava i dati di tiro in batteria. In una di quelle notti ci fu un allarme nella rada: si udirono detonazioni si videro bagliori di incendi. Corse voce che ci fossero gli incursori della nostra Regia Marina; si disse che fossero stati catturati e messi sotto sorveglianza speciale nel nostro campo, ma che poi fossero evasi. Queste le voci. Se le cose stavano così, essi sapevano dove andare, avevano i loro punti d'appoggio e non avevano ancora subito l'iniezione antifuga. Il 23 aprile, venerdì Santo, fummo schedati e immatricolati a cura di un capitano palestinese. Io diventai P.O.W. (prisoner of war) n°... Chi fosse interessato a conoscere tale numero, vada a cercarselo negli archivi di Sua Maestà Britannica, tenuti un po' meglio dei nostri; io cercai di dimenticarmelo, e la cosa mi riuscì. E. A Geneifa, martedì 27 aprile 1943, santa Zita "gli astri dominanti che porteranno tuoni, piogge e grandine. Quod Deus avertat" (Dall'almanacco) Adunata "con tutti li robi": si parte! Il cielo era sereno senza piogge, tuoni o grandine. Partimmo, previa iniezione antifuga, percorrendo un tratto in ferrovia e un tratto con la "camiona". Passando per la stazione di El Zagazig vedemmo finalmente una bella ragazza, la prima dopo tanto tempo passato, l'ultima per un lunghissimo futuro. Quella visione ci tenne compagnia e che ricordò che a questo mondo ci sono anche le ragazze, che sono come noi, salvo alcune notevoli differenze, quanto mai pregevoli. Io attraversai il Cairo coricato nel cassone di un autocarro, febbricitante, assieme ad altri malati. Ci scortava un soldato scozzese con tanto di gonnellino: un pezzo di ragazzone biondo e alto così. Nel bel mezzo della città il motore si fermò; in un momento fummo subito circondati da una marea di gente ostile che diede l'assalto all'autocarro con intenzioni davvero cattive. Si trattava di un'ondata di xenofobia che allora stava esplodendo in tutto l'Egitto, dove gli inglesi erano cordialmente odiati. Ma quella gente come poteva distinguere chi era inglese e chi no? Questo pensavo, mentre centinaia di mani afferravano i bordi del cassone e una donna enorme protendeva le sue proprio verso di me. Io non avevo la forza di muovermi. Lo scozzese mi si mise sopra a gambe larghe, afferrò il fucile per la canna e cominciò a roteare l'arma spaccando teste, pestando mani e stendendo diversa gente per terra senza complimenti e con un rosario di parolacce di gran marca. Il fucile Enfield è piuttosto pesante. In quei momenti ero completamente incosciente e osservavo con l'occhio spento quella scena da linciaggio in cui mi sentivo vittima predesignata. Perciò non chiedetemi se quel bravo scozzese portasse le mutande oppure no, anche se mi stava sempre sopra a gambe divaricate roteando il fucile come una clava. Grazie, scozzese! L'autocarro riuscì a rimettersi in moto e noi proseguimmo alla volta di Geneifa, dove finalmente arrivammo. Mai visto un posto così brutto! Caldo bestiale, pochissima acqua, un vento che ci investiva con nuvole di polvere rovente, desolazione infinita. A est, oltre il canale, il massiccio del Sinai. Il nostro gruppo di ufficiali riuscì a mantenersi unito. A me il grazioso incarico di fare la coda con il secchio per prendere l'acqua e distribuirla in ragione di un bicchiere a testa. Servito per ultimo, mi restava un bicchiere d'acqua, sabbia e formiche. Nelle stesse condizioni era un recinto accanto al nostro, occupato dai tedeschi. Uno di questi si travestì da donna, con tanto di reggipetto, perizoma e fluente chioma bionda ricavata da una fune disfatta e pettinata. Fece il giro del campo abbandonandosi a danze lascive provocanti sotto l'altana di ogni sentinella. Le guardie non credevano ai propri occhi: una rischiò di cadere sporgendosi troppo dall'altana, un'altra tutta vogliosa si mise a mugolare, un'altra infine fece una cosa brutta che non vi posso descrivere. Erano tutti indiani della casta dei Sikh. A Geneifa fui
ricoverato per intossicazione in una delle grandi tende ospedale, che
erano molto bene attrezzate. Il sottotenente medico Delle Piane, di
Genova, mi mi visitò con amorevole cura e riuscì a guarirmi. Grazie,
dottore! Devo dire che gli inglesi ebbero sempre molta cura dell'igiene
e del servizio sanitario. I nostri ufficiali medici erano tenuti in alta
considerazione: difatti il dottor Delle Piane era praticamente il
direttore dell'ospedale perché il medico inglese gli aveva parlato
pressappoco così: F. A Heluan, domenica 27 giugno 1943, S. Stanislao "turbini d'aere con burrasche, lampi e tuoni. Buone notizie per noi" (Dall'almanacco) Difatti: "adunata con tutti li robi: si parte!" Il nuovo campo era un po' meno squallido di quello di Geneifa. Al Nord confinava con un campo d'aviazione oltre il quale c'era l'abitato di Heluan; verso sud si intravedeva Ismailia, sul canale; a destra si stendevano i Laghi Amari, ma non si vedevano; a ovest la valle del Nilo che si poteva scorgere soltanto arrampicandoci a uno dei pali che reggevano le tende. Era un nastro lungo, verdeggiante, che attraversava da sud verso nord l'infinito deserto rossastro. Oltre quel nastro verde, le piramidi si distinguevano benissimo. Ma la scoperta più sensazionale fu questa: il nostro recinto confinava direttamente con i forni militari. Panificavano per le Unità inglesi in Egitto. Per di più, ci lavoravano i soldati italiani prigionieri, fornai di professione. All'arrivo, ci salutarono con eloquenti gesti d'intesa, e quando calò la notte e i controlli si fecero meno stretti sul nostro campo cadde una vera gragnuola di pani che giunsero quantomai a proposito, perché al solito eravamo affamati Quei bravi ragazzi avevano ridotto il peso delle razioni per gli inglesi e ci avevano fatto uscire quelle per noi. Restava la
sete, perché gli impianti per portare l'acqua dal Nilo non erano ancora
pronti. Chi aveva una borraccia la faceva volare oltre i reticolati e
chiamava il negro di sentinella. Ci vollero alquanti giorni perché ci si potesse sistemare in via definitiva, ma alla fine ci si arrivò. Avevamo le cucine, un tendone-refettorio (si fa per dire), lavatoi con acqua corrente, un barbiere, un altoparlante che trasmetteva in inglese i bollettini da radio Cairo... e una doccia! Indescrivibile la goduria della prima doccia mentre rivoletti di bitumi di asfalti colavano dalla nostra pelle, mentre le croste di sudore, di polvere di sale scorrevano disciolte ai nostri piedi... ah! Una volta ripuliti ci demmo da fare per organizzare le nostre giornate. A questo punto, anziché seguire la cronologia degli avvenimenti, sarà meglio elencare fatti e attività di rilievo, che furono molti. Eravamo in una sede definitiva, senza "adunata con tutti li robi e partenza con la camiona", previa iniezione antifuga.
Giacomo Ferrera
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