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Prigionia in Africa (1943-1945) - di Giacomo Ferrera

 

 I disegni che si trovano

in questa pagina sono stati

eseguiti dall'autore del testo

e rielaborati da   Lucia Maria Izzo

e Sebastiana Schillaci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo IV : Le attività - Industria, economia, commercio

Alla somministrazione quasi regolare degli alimenti seguì la possibilità di fare acquisti presso uno spaccio del campo, gestito da due greci e da un arabo che si chiamava Mahamud, panciuto e sposato con quattro mogli. Essi di questo commercio avevano il monopolio, ottenuto dagli inglesi non certo per grazia divina. Ognuno di noi, con un "credito" mensile corrispondente a una certa cifra, elencava settimanalmente quello che gli occorreva; l'importo veniva poi scalato dal suo "credito". Un nostro incaricato riepilogava gli elenchi, andava allo spaccio, provvedeva alle distribuzioni e chiudeva i conti. Un brutto giorno toccò a me quel grazioso incarico. Ci rimisi l'osso del collo e mi feci più furbo.

Si ingannerebbe il dotto che, analizzando questi particolari storico-amministrativi, pensasse che i crediti mensili venissero calcolati in sterline-oro o in marenghi: si trattava invece di poche e svalutatissime piastre egiziane. Ne vedemmo qualcuna: quella valuta pareva stampata su carta da giornale. Si narra che in un altro campo il nostro bravo incisore, emulo di Adamo da Brescia (ma chi era? Un celebre falsario! Vedasi Dante, XXX canto dell'Inferno, e studiate di più!) abbia riprodotto con rara maestria piastre egiziane che non si distinguevano affatto da quelle vere, il che consentì a quei poveracci di comprare qualche cosa da mangiare, solito problema da risolvere. La tecnica usata? Con un bulino fatto artigianalmente si incideva un piatto di zinco perfettamente livellato che serviva da matrice. Ma la carta? Non costituiva problema: non occorreva la filigrana del nostro Poligrafico. E gli inchiostri? Adesso volete sapere un po' troppo; avete forse intenzione di......?

Con la distribuzione di certi generi (arachidi con l'inquilino, gallette spezzate, scatolette da aprire e da dividere eccetera) apparve un personaggio nuovo: l'Achiquestiere. Si procedeva così: tutta la roba per terra, su di una coperta. Quanti siamo? Otto. Fare otto mucchietti possibilmente uguali; se ci sono cose diverse e ognuna non è divisibile per otto si compensa con altri generi, con il controllo ditutti. Fatto? Ora chi comanda è l'Achiquestiere. Ordina a uno degli astanti di voltare le spalle, indica un mucchietto alla volta senza seguire alcun ordine di successione e per ogni mucchietto domanda: a chi questo? l'interpellato, che non è in grado di vedere, risponde:

- A Rossi!
- A chi questo?
- A Fabbri!
- A chi questo?
- A te!
- A chi questo?
- A Colombo!
- A chi questo?
- A me!
- A chi questo?
- A Fabbri!
- Ti lo g'ha già dito, mona! Dime un altro!
- Aggie sbagliate... a Luraghi!
... e così via. ognuno prende il suo mucchietto e se ne va; così, con quel sistema, si evitano le contestazioni.

Le figure del Barattoliere e dell'Achiquestiere apparvero e funzionarono anche nei lager tedeschi: ne dà una bella descrizione lo scrittore Nino Guareschi nel suo "Diario clandestino". Eppure, fra noi in Africa e loro lassù in Germania e in Polonia non c'era contatto alcuno.

In materia alimentare, ciò che più si desiderava era la roba fresca: frutta, meloni, pomodori, arance, insalate. C'erano diversi casi di avitaminosi, specie in chi era laggiù da qualche anno, e perfino qualche primo sintomo di scorbuto. Per noi, un pomodoro fresco aveva mille buoni sapori.

Il sottotenente Astarita da Napoli, di professione ingegnere, ufficiale del Genio, si dimostrò davvero un genio. Di poche parole, studiò le persone per conoscerne le capacità e l'ambiente per sfruttarne le risorse. Proprio l'ambiente non offriva risorsa alcuna e avrebbe spento qualunque iniziativa; invece quando le idee furono chiare, Astarita passò decisamente all'azione. Chiamò il Barattoliere e gli commissionò un distillatore alquanto complicato, nel quale il distillato veniva di bel nuovo evaporato e poi ancora condensato per 5 o 6 volte e così via fino a ottenere un prodotto purissimo. Fece tanto di progetto e pretese che l'apparecchio fosse rapidamente smontabile in pezzi da disperdere e nascondere sotto la sabbia in caso di ispezione; chiamò diverse persone e diede a ciascuno un incarico: raccogliere i rifiuti di cucina da sottoporre a fermentazione, trovare bottiglie da liquori vuote (potevano farlo i soldati addetti ai servizi delle mense inglesi), salvare e restaurare etichette, reperire tappi e stagnola, preparare colle. Tutto pronto per la preparazione di whisky scozzese di gran marca. Ma... quel pregiato liquore ha una bella tinta calda, sul biondo paglierino; quel nostro prodotto era incolore. Nessun problema per l'ingegner Astarita! Prese la suola di uno scarpone vecchio e la lasciò macerare nel distillato finché questo assunse il colore voluto. Quindi egli intinse la punta di un dito nel liquido, assaggiò, sputò coscienziosamente e disse: ottimo! Pronti per la confezione e la vendita. Un apposito incaricato si mise al cancello e quando vedeva passare uno dei sergenti inglesi di servizio alzava una bottiglia e chiedeva: whisky? Figurarsi quelli! Compravano subito, pagano in piastre che per noi significavano pomodori, arance e preziosissimi alimenti freschi, da ripartire scrupolosamente fra gli operatori che ormai non riuscivano più a soddisfare le richieste.

Adesso avete capito perché, quando fummo finalmente rimpatriati, ci fu il miracolo economico?

Dal canto loro gli inglesi allora non si chiesero mai come dei poveracci come noi potessero disporre di liquori pregiati in confezioni originali. Ancor oggi gli stessi inglesi non capiscono, tanto per fare un esempio, come mai imponenti fabbriche di frigoriferi siano sorte dal nulla in Italia, su un fondo di campagna, anziché in Inghilterra, nello Staffordshire. Questo non lo dico io, ma l'autorevole pubblicazione "The Economist" nell'anno 1990.

 

Giacomo Ferrera