home

eli

index

Missione in Turchia (1965) - di Giacomo Ferrera

 

 Il disegno che si trova

in questa pagina è

stato eseguito dall'autore

e rielaborato da

Adele Chiappisi,

 

 

 

 

 

osteria

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

index

 

Capitolo X - Erzurum, Trebisonda e ritorno

Sabato 28 agosto

Partiamo. Trebisonda dista circa 300 km. Lungo il percorso non manchiamo di visitare reparti e di prendere appunti, fino a quando non si arriva a destinazione. L'artigliere sta male: colica epatica; anche gli ha bevuto l'acqua fresca! A Trebisonda, un medico turco lo visita, lo cura e lo mette a dieta e a letto. Io, il turco e il capitano carrista stiamo benissimo: cappone arrosto, cipolle crude e vino.

Domenica 29 agosto

Oggi si cambia dieta. Il turco conosce un ristorante che sembra uno di quelli che si vedono nei film western ambientati nel nuovo Messico, ma che è famoso per i suoi pesci barbi al cartoccio, appena pescati nel Mar Nero. Di fronte a noi, un armeno sta spolpando e divorando ingordamente del pesce, e reca vistosi frammenti del medesimo sparsi e trattenuti nella folta barba. Ci facciamo una strippata di pesce al cartoccio e scoliamo più di una bottiglia quale giusto premio per la passata sopportazione della gran sete, il tutto alla faccia del Profeta. L'amico turco si sbottona e dice che i loro preti sono una massa di ignoranti.

Lunedì 30 agosto

Grande festa nazionale, a Trebisonda, con sfilata dei reparti militari e di gruppi folcloristici. Il generale comandante ci invita a cena: altra spanciata di pesce al cartoccio, ma con signorile discrezione. Mentre sostiamo in giardino con altri ospiti, la radio comunica che il generale è stato promosso, il che aumenta l'allegria.

 Martedì 31 agosto

Piove. Sospesa la visita alle fabbriche di Rize.

Mercoledì 1 settembre

Visita ad altre reparti: truppe da montagna, fanteria, artiglieria

Giovedì 2 settembre

Da Trebisonda a Erzurum. Preparativi per il ritorno.

Venerdì 3 settembre

Altra giornata ideale per il volo di rientro! L'aereo civile turco (il nostro, quello militare, è già precipitato senza di noi) parte da Erzurum, sosta a Erzinkan, a Sivas e fortunosamente ci scarica ad Ankara. L'addetto militare non crede ai propri occhi e fotocopia freneticamente tutti gli appunti che ho preso: ci vivrà di rendita per un bel po'. La missione è finita, ma il bello deve ancora venire.

Capitolo XI - da Ankara a Istanbul

Sabato 4 settembre

Diamo un'occhiata all'aereo: è il solito Dakota da carico, trasformato per passeggeri con la consueta ingegnosità turca: ne sappiamo qualcosa! Alle normali file di sedie, ne hanno aggiunto una per sfruttare al massimo la capacità di carico. Prendo posto vicino al finestrino per scattare qualche fotografia dall'alto. Si avvicina un distinto signore, mi vede l'uniforme e mi domanda in turco se la sua gentile consorte possa prendere posto accanto a me. Rispondo in italiano che ne sono onorato e che la signora si accomodi pure. Egli me la affida, ringrazia e scende. Com'è bello intenderci così fra popoli diversi e con lingue diverse! Ma ancora non so che mi sono preso proprio un bell'incarico. La signora si siede: è tanto grossa è tanto larga da invadere anche il mio sedile. Sono le ore 11.30: si parte. Mi sento benissimo, dopo le mangiate di montone, di cipolle crude e pesci. Passa ancheggiando l’ “hostesso” con limonate e biscotti. Ne prendo alcuni e comincio a rosicchiare mentre guardo fuori. L'aereo rulla e poi si alza faticosamente in volo.

Già si avvertono i primi vuoti d'aria, che provocano l'emissione di strani gorgoglii da parte della signora, la quale mi guarda con occhi bovini come quelli di Filomedusa Boòpis di cui parla fugacemente Omero nell’Iliade. Con la mano libera dai biscotti, afferro un sacchetto e lo preparo per la triste bisogna che si profila imminente. Filomedusa me lo riempe all'istante. Pronto un altro, e poi un altro, e un altro ancora… Il povero “hostesso” si precipita, sgombera, e intanto mi serve altri biscotti perché sento una punta di fame. Esauriti i sacchetti a portata di mano, mi faccio dare quelli dei vicini e aiuto quella poveretta con parole di conforto.

- Ma cara signora, sono cose che capitano, faccia pure, si liberi senza riguardi. Mi salvi solo la divisa e la mano destra con cui sto mangiando; per il resto, non ci sono problemi.

Filomedusa mi guarda con occhi riconoscenti. Finalmente la poveretta riesce a liberarsi completamente, quindi si accascia esausta e chiude gli occhi.

Guardo fuori, l'ultimo lembo di questo altopiano triste e squallido, privo di alberi, rigato da qualche corso d'acqua magro e fangoso, e scatto una panoramica. Vedo davanti a noi l'imponente catena dei monti che bordano l'altopiano anatolico; mi pare che l'aereo punti diritto contro la parete di una montagna. Sento i motori che arrancano al massimo per guadagnare penosamente quota, ma la parete si profila sempre più vicina. Ormai non riusciamo a superarla. Ma non ho visto che davanti a noi si apre, tra due cime, un passo montano. L'aereo si infila proprio lì, sfiora quasi il terreno brullo sul quale posso contare i sassolini e si butta sull'altro versante: ci ritroviamo altissimi perché abbiamo superato l'orlo dell'altopiano.

Alle ore 11:45 atterriamo a Istanbul. Per scendere, devo aspettare che Filomedusa si alzi; per fortuna, la signora è attesa, qualcuno arriva per riceverla e per aiutarla.

- Mi scusi tanto per il disturbo che le ho arrecato, la ringrazio per tutto quello che ha fatto per me! - Dice Filomedusa in turco, con i suoi grandi occhi buoni.

- Non dica questo, cara signora! Non mi ha recato alcun fastidio. La sua compagnia mi è stata molto gradita. Mi ricordi tanto a suo marito! - Dico in italiano.

Si scende. Alloggio al Plaza hotel, camera con vista sul Bosforo. Come in tutti gli alberghi fino ad ora visitati, noto fori nelle porte e nelle tende delle finestre che danno sui terrazzi: ne deduco che i turchi sono dei guardoni.

Si riparte domani; abbiamo 24 ore di tempo per vedere Istanbul. Me ne vado a visitare una moschea, la via dei bazaar e il ponte di Gàlata, in mezzo alla gente. Vicino al ponte c'è una barca con dentro tre uomini indaffaratissimi: il primo pesca, pulisce i pesci e li getta ancora saltellanti in un calderone di olio bollente, il secondo regola fuoco in cottura, quindi passa i pesci cotti al terzo; questi ha pronto un cestone di pagnotte già tagliate in due, mette dentro il pesce cotto, vende ai passanti e incassa i soldi. Il profumo è delizioso. Mai vista simile organizzazione: dal produttore al consumatore!

Passo la notte alla finestra e non mi stanco di guardare il Bosforo

Giacomo Ferrera