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e rielaborato da
Lucia Maria Izzo
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Capitolo XII - Da Istanbul a Palmanova
Domenica 5 settembre
Il capitano carrista dice: "col cavolo che le linee aeree turche mi
fregano ancora!"
Si fa consegnare i nostri biglietti, va alla Panamerican e cambia
linea. Partiamo alle 11.45 e dopo un'ora siamo a Roma.
Lunedì 6 settembre
A Roma, dal Ministero che difende l'esercito. Restituisco
passaporti, riferisco, do resoconti e prometto relazione completa.
Salto sulla Freccia della Laguna, arrivo a casa il 7 settembre e
cerco di togliermi di dosso la puzza di caprone che mi sto ancora
portando dietro.
Mercoledì 8 settembre
A Palmanueva-les-Bains. Oggi storico anniversario della più nefasta
giornata della storia d'Italia, da celebrare a perenne memoria.
Trovo il mio tavolo ingombro di pratiche arretrate e il personale
che mi guarda con occhi imploranti. E va bene! Rimbocchiamoci le
maniche e vediamo anche qui di salvare l'Italia. Dopo qualche
giorno, il carabiniere di servizio mi dice di scendere: è arrivata,
come previsto negli scambi concordati, la missione degli ufficiali
turchi, i quali si guardano attorno e appaiono lieti e contenti di
essere qui. E lo credo bene, considerato da dove provengono. Lì
ricevo con calore.
- Ma non ci siamo già conosciuti a Kars, ad Erzurum, a Trebisonda,
a Sarakamis? com'è piccolo il mondo! Bene arrivati! Avverto subito i
comandi ai quali siete destinati.
- Mi raccomando: riceveteli bene! Per la lingua, non hanno
problemi, perché parlano italiano, francese, inglese e tedesco. E'
gente a posto!
Capitolo XIII - Conclusione
Riesco a stendere una relazione lunga, densa di dati interessanti e
di giudizi meditati: viene trasmessa in via gerarchica e allora
tutti si meravigliano nel vedere una messe così ricca e così
completa. Ma in fin dei conti è il mio mestiere…
Concludo con le mie proposte: quel popolo così fiero e così sicuro
di sé deve essere aiutato e sostenuto, perché rappresenta il
bastione meridionale che ci difende dall'invadenza sovietica e dal
fanatismo degli arabi. Quella gente chiede solo contatti,
comprensione, tecnologia, perché si sente tecnicamente e
culturalmente arretrata rispetto all'Europa occidentale, che cerca
di imitare e che ammira con invidia. Per quanto concerne il pericolo
d'invasione dal Caucaso, nessuna preoccupazione: oltre il confine
orientale turco vivono decine di milioni di Georgiani, di Turcomanni, di
Tartari, di Azerbaijani… Tutta gente che parla il turco,
che morde il freno e che mal sopporta il giogo sovietico. In caso di
invasione da est, nelle retrovie dell'attaccante succederà il
finimondo; perciò la Turchia deve essere aiutata e sostenuta.
Questo scrivevo nella calda estate del 1965. Mi hanno ascoltato? I
militari sì, e subito, ma i politici - sempre loro - hanno preferito
aiutare e sostenere tirannelli africani e mestatori arabi, con quei
giochi di politica levantina che Ankara ha rigettato con disgusto
fin dai tempi di Kemal Ataturk, l'uomo che nacque, visse e morì
nel tempo giusto per dare alla sua patria il meglio di se stesso.
A me restano i ricordi di allora:
-
i bambini biondi e rosei che sguazzavano giulivi nel liquame delle
stalle;
-
gli scolaretti poveri e cenciosi che uscivano da una misera scuola
in silenzio e in punta di piedi per non disturbare le cicogne alla
cova in un nido vicino, come in Italia;
-
La gente del popolo che salutava con lo slancio i suoi soldati in
marcia o in transito, come in Italia;
-
i capi di quei miseri villaggi che ci fermavano con un gesto di
civiltà antica per salutarci e per offrirci una tazza di tè o di
caffè alla turca;
-
il pastore errante dell'Asia, come figura uscita dall'antico
testamento;
-
Le colline da cui partì l'urlo glorioso "thàlassa, thàlassa"
dei 10.000 di Senofonte che nel mare vedevano finalmente la
salvezza;
-
Le strade battute per millenni da carovane, da apostoli, da
missionari, guerrieri, da profeti, da fanatici;
-
I ponti costruiti dai romani e le tracce dei loro accampamenti;
-
Le città morte e le antiche rovine di civiltà sepolte;
-
Le caverne dalle quali la civiltà mediterranea mosse i primi passi.
Porto con me il ricordo di quei bravi soldati che accettavano di
buon grado una disciplina di ferro, perché l'esercito era
considerato una immensa scuola per imparare a leggere, a scrivere, a
coltivare i campi, a praticare un mestiere, con tanto di insegnanti
per ogni attività in libera uscita i militari con quelle uniformi
lise, ricucite e rattoppate, passate da una classe di leva
all'altra, apparivano sciatti e dimessi; ma quando erano nei ranghi
facevano corpo unico con l'arma individuale, si sentivano parte viva
di un complesso di forze organico e poderoso e acquisiscano una
fierezza sorprendente. L'elmo, di foggia germanica, faceva il resto.
Quelli sono, come sempre, combattenti duri, tenaci e temibili.
Laggiù, ai confini con l'URSS, con l'Iran, con l'Iraq e con la Siria
quei soldati costituiscono le possenti guarnigioni capaci di tenere
a bada quei vicini ingombranti e pericolosi: conducono una vita
solitaria, isolata, distaccata dal mondo, proprio come quella dei
soldati che presidiavano la fortezza Bastiani di cui al bel romanzo
Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
I militari dislocati laggiù,
davanti alle steppe dell'Asia, si sacrificano anche per noi, per la
civiltà occidentale in cui credono e alla quale si affidano.
Giacomo
Ferrera
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