IL TEMPO NARRATIVO
Riflettere sulle scelte operata dagli autori serve a comprendere meglio i testi che si leggono.
- Riconoscere le tecniche narrative usate dall'autore riguardo al tempo
- Confrontare più testi per ritrovare analogie e differenze
- Ricostruire fabula e intreccio
Da James Joyce, Gente di Dublino, Einaudi, 1974
Stava seduta alla finestra osservando la sera che scendeva sul viale, con la testa appoggiata alle tendine e nelle narici l'odore del "crètonne" polveroso; si sentiva stanca.
C'era poca gente per la strada. L'uomo che abitava nell'ultima casa passò rincasando; ne sentì i passi che risuonavano sul cemento del marciapiede e poi scricchiolavano più in là sul sentiero, davanti alle nuove case rosse. Una volta in quel punto c'era un terreno, sul quale loro andavano a giocare con i bambini del quartiere. (…) Lei aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la sua casa. Era saggio quello che faceva? Cercava di esaminare la questione da ogni lato. Dopotutto a casa sua aveva un tetto e di che nutrirsi; era circondata da quelli con i quali aveva vissuto fin dalla nascita. Certo doveva lavorare sodo, sia a casa che in negozio. Che cosa avrebbero detto di lei ai Magazzini una volta scoperto che se ne era scappata via con uno sconosciuto? Probabilmente che era impazzita e al suo posto avrebbero assunto qualcun altro tramite un'inserzione. La signorina Gavan ne sarebbe stata contenta; era sempre stata aspra verso di lei, soprattutto in presenza di gente. "Signorina Hill, non vedete che le signore aspettano?"
"Per favore, signorina Hill, un po' di vivacità!"
Non avrebbe versato molte lacrime nel lasciare i Magazzini. Nella sua nuova casa, in un posto lontano e sconosciuto, non sarebbe stato così. Allora sarebbe stata sposata, lei, Eveline, e la gente l'avrebbe trattata con rispetto. Non si sarebbe lasciata sopraffare come sua madre. (…) Stava per sperimentare una nuova vita con Frank. Frank era molto gentile, risoluto, di animo aperto. Stava per scappare con lui col vapore della sera per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires, dove una casa tutta per lei l'aspettava. Con quanta chiarezza ricordava la prima volta che lo aveva visto! Lui abitava nella via principale, in una casa che lei era solita frequentare. Sembrava che fossero passate poche settimane da allora. Lui era vicino al cancello, il berretto a visiera cacciato indietro sulla testa e i capelli scomposti che scendevano in avanti sul viso abbronzato. La aspettava ogni sera davanti ai Magazzini e l'accompagnava a casa. L'aveva portata a vedere "La ragazza di Boemia", e lei si era sentita fiera di essere seduta vicino a lui a teatro, in posti che non le erano abituali. Lui amava molto la musica e cantava anche un po'. Tutti li sapevano innamorati, e ogni volta che lui cantava la canzone della ragazza che ama un marinaio, lei sentiva un piacevole imbarazzo. Frank, per gioco, la chiamava Papavero. All'inizio l'avere un corteggiatore le aveva dato un senso di eccitazione, poi aveva cominciato a volergli bene sul serio. Parlava di paesi lontani; aveva cominciato come mozzo per una sterlina al mese su una nave della Allan Lines che faceva servizio con il Canadà. Le elencò i nomi di tutte le navi sulle quali era stato imbarcato e i diversi compiti ai quali era stato adibito. Aveva passato lo stretto di Magellano e le raccontò delle leggende sui terribili Patagoni. Aveva trovato la sua fortuna a Buenos Aires ed era tornato alla vecchia terra natìa solo per una vacanza. Naturalmente il padre aveva scoperto tutto e le aveva proibito di avere a che fare con lui. (…)
Mentre rifletteva, la pietosa visione della vita di sua madre, di quella vita di continui piccoli sacrifici quotidiani, spentasi in un ultimo vaneggiare, raggiunse l'intimo del suo essere. Tremava, e le sembrava ancora di riascoltare la voce della mamma ripetere continuamente e con insistenza maniaca:
"Derevaum Seraun! Derevaum Seraun!"
Balzò in piedi presa da un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Doveva fuggire. Frank l'avrebbe salvata, le avrebbe dato la vita, forse anche l'amore. Soprattutto voleva vivere. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva pur diritto alla felicità, e Frank l'avrebbe presa, stretta tra le braccia, l'avrebbe salvata.
Era in piedi tra la folla ondeggiante alla stazione di North Wall. Lui le teneva la mano, e lei sapeva che le stava parlando, ripetendole di continuo qualcosa sulla prossima traversata. La stazione brulicava di soldati coi loro scuri bagagli. Improvvisamente, attraverso le porte aperte delle tettoie, le apparve a tratti la massa immobile e nera della nave accostata alla banchina, con gli oblò illuminati. Non rispose; si sentiva le guance pallide e fredde e, in un'angosciosa incertezza, pregava Dio che la guidasse, che le indicasse qual era il suo dovere. La nave lanciò un lungo, lugubre sibilo nella nebbia. Se se ne fosse andata, domani si sarebbe trovata in mare aperto con Frank, diretta a Buenos Aires. I loro posti erano già stati prenotati. Poteva ancora tirarsi indietro dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei? L'angoscia le dava un senso di nausea, e le sue labbra si muovevano in una silenziosa e fervida preghiera. Il suo cuore fu colpito dal suono di un campanello. Sentì che lui le prendeva la mano.
"Vieni!"
Tutte le acque del mondo le precipitarono sul cuore. Lui la tirava verso quei marosi; l'avrebbe annegata. Si aggrappò con tutte e due le mani al parapetto di ferro.
"Vieni!"
No! no! no! Era impossibile. Le sue mani stringevano spasmodicamente il parapetto. Tra le onde lanciò un grido di angoscia.
"Eveline! Evvy!"
Lui fu sospinto al di là dei cancelli e le gridò di seguirlo. Gli urlarono di andare avanti, ma Frank continuava a chiamarla. Lei rivolse verso di lui il suo volto impallidito, passivo, come quello di un animale smarrito. I suoi occhi non diedero un segno, né di amore né di addio; non sembravano nemmeno riconoscerlo.
IL COLOMBRE
da D. Buzzati,Il colombre, Mondadori, Milano, 1992
Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi ancora pi'u' belle e grandi della tua. »
« Che Dio ti benedica, figliolo » rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni. Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, in corrispondenza della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il padre, non vedendo Stefano piú in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese dalla plancia e andò a cercarlo.
« Stefano, che cosa fai lí impalato? » gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che fissava le onde.
« Papà, vieni qui a vedere. »
Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a vedere niente.
« C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia » disse « e che ci viene dietro.»
« Nonostante i miei quarant'anni » disse il padre « credo di avere ancora una vista buona. Ma non vedo assolutamente niente. »
Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
« Cos'è? Perché fai quella faccia? »
« Oh, non ti avessi ascoltato » esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quella cosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. E’ il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. E’ uno squalo tremendo e misterioso, piú astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue. »« Non è una favola? »
«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'ho subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e chiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in porto e, coi pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo. Quindi ripartì senza di lui. Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberatura sprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo. Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo mandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò piú al mostro marino. Tuttavia, per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa. appena ebbe un minuto libero, si affrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio. Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi finalmente veniva.
Cosí, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. (…) Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna.
(…) Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutatati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione. L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, un tradimento alle tradizioni di famiglia.
E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
(…) Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo.
Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentì padrone del mestiere, acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il solo proprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare un mercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre più ambiziosi. (…) Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. (…) E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato, si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore, promise. Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento,rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni, inutilmente.
« Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo » disse « con una fedeltà che neppure il più nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo. »
Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fatto dare un arpione. « Ora gli vado incontro » annunciò. « E’ giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze. » A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiù, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte. C'era in cielo una falce di luna. Non dovette faticare molto. All'improvviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca.
« Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire.
« Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. « Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore,
e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.
« Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo.
«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.»
« Addio, pover'uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.
Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fu avvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancora seduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sasso rotondo. Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro. A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.
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Percorso pluridisciplinare sulla percezione del tempo