Introduzione

OSSERVAZIONI SUL VESUVIO TRATTE da 

"CAMPI FLEGREI" 

di W. HAMILTON 


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Nelle zone vulcaniche vivono milioni di persone per le quali i vulcani rappresentano un rischio costante: per questo è necessario conoscere a fondo i meccanismi delle eruzioni e cercare di prevederle con anticipo.

Nell'ultimo secolo sono morte più di 80.000 persone a causa di violente eruzioni e le vittime sarebbero state molte di più se alcune di esse non fossero avvenute in zone completamente desertiche.

I vulcani più pericolosi della terra vengono costantemente tenuti sotto controllo dalle apparecchiature degli osservatori vulcanologi. Nelle zone più a rischio vengono predisposti piani di evacuazione dei centri abitati; nel caso del Vesuvio, un vulcano ad alto rischio, e quindi uno dei più controllati, si prevede che la ripresa dell'attività avverrà con un'eruzione fortemente esplosiva, con la formazione di nubi ardenti e di colonne di ceneri alte decine di chilometri. Questa sarà preceduta da segnali premonitori (terremoti sempre più frequenti e intensi, deformazioni del suolo, emissioni di gas) che dovrebbero consentire di attuare in tempo gli interventi messi a punto, già da alcuni anni, dalla Protezione civile, in accordo con le Amministrazioni locali e gli studiosi dell'Osservatorio Vesuviano per l'evacuazione degli abitanti (circa 800.000 persone) dei 18 comuni della zona vesuviana.

Noi, dell'Istituto comprensivo "A.Panzini", abbiamo avuto la felice opportunità offertaci dalla professoressa Rosaria Ferrara, di godere della lettura dei tre tomi sullo studio dei Campi Flegrei, tra l'altro veri e propri gioielli dell'editoria, nei quali sono riportate osservazioni interessanti sul Monte Vesuvio e sulle antiche e numerose manifestazioni vulcaniche comunicate all'Accademia Reale delle Scienze di Londra da Sir William Hamilton, inviato straordinario e plenipotenziario di sua Maestà Britannica alla Corte di Napoli e membro dell'Accademia Reale delle Scienze di Londra, nella seconda metà del 1700.

Lo studioso, rendendosi conto della grande difficoltà di dare con le sole parole un'immagine veritiera del nostro Paese a coloro che non avevano avuto l'occasione di visitare questa parte dell'Italia, chiese al Signor Pietro Fabris, artista ingegnoso e molto abile, di eseguire un disegno di ciascuno dei luoghi di cui Egli parlava nelle sue lettere.

In ogni disegno, ciascuno strato è rappresentato nei suoi veri colori e altresì vi è rappresentata la forma interna ed esterna del Monte Vesuvio, della "Solfaterra" e di tutti gli altri antichi Vulcani dei dintorni di Napoli, nonché dei vari campioni di materie vulcaniche quali lava, tufo pietra pomice, ceneri, zolfo, sali etc.. materie di cui è evidentemente composta l'intera regione.

Sir W. Hamilton fornì al Signor Fabris anche i mezzi necessari per la pubblicazione di una nuova Edizione delle sue lettere con il corredo di Tavole (ad immagine dei dipinti originali), che abili artisti locali furono in grado di eseguire con una tale perfezione da non permettere quasi di distinguere le copie dagli originali.

Egli stesso aggiunse poi riflessioni che i soggetti gli ispiravano e osò perfino sperare che "grazie alle fedeli rappresentazioni di tanti scenari affascinanti, tutti frutto di eruzioni vulcaniche, questa terrificante attività della natura venga d'ora in poi considerata creativa anziché distruttiva."

Le osservazioni iniziarono fin dal 17 Novembre 1764 e sono di per sé un'opera d'arte per lo stile semplice, fluido ma nello stesso tempo molto puntuale.

Nella prima lettera al Conte di Morton  riporta una riflessione sull'aumento del fumo del vulcano, molto più abbondante in caso di maltempo, che causerebbe anche più frequenti esplosioni interne della montagna udibili persino a Napoli, a sei miglia dal Vesuvio:

" …credo che il peso dell'atmosfera, quando il tempo è cattivo, impedendo la libera dissipazione del fumo e accumulandolo al di sopra del cratere, lo faccia sembrare più denso, mentre, quando il tempo è sereno, il fumo si dissipa subito dopo la sua emissione. E' tuttavia opinione corrente a Napoli (e secondo le mie osservazioni, la ritengo ben fondata) che quando il Vesuvio brontola il maltempo si avvicina. Può darsi che il mare della Baia di Napoli, essendo particolarmente agitato e gonfiandosi alcune ore prima dell'arrivo di un temporale, entri di forza nelle fessure che conducono alle viscere del vulcano e, causandovi una nuova fermentazione, produca quelle esplosioni e quei brontolii."

Durante il mese di novembre Sir W. Hamilton fu costretto a ritirarsi da una sua visita al Vesuvio per una violenta esplosione, che lo colpì molto da vicino con una grandinata di pietre. Fino al 28 marzo 1764 "il fumo aumentò e fu carico di ceneri che causarono gravi danni ai vigneti circostanti".

A suo avviso però, le ceneri, "distruggendo foglie e frutti, sono molto nocive per la vegetazione durante uno o due anni; in generale, però, sono senz'altro di grandissima utilità alla terra e costituiscono una delle cause principali della fertilità che si riscontra nelle vicinanze dei vulcani".

Il resoconto continua così: "Alcuni giorni prima dell'eruzione vidi ciò che anche Plinio il Giovane dice di aver visto prima dell'eruzione che fu così fatale a suo zio: il fumo nero assunse la forma di un pino marittimo. Quella colonna di fumo nero, dopo essersi innalzata ad un'altezza straordinaria, seguì la direzione del vento e fu portata fino a Capri che si trova a circa 28 miglia dal Vesuvio. Due mesi prima dell'eruzione, il fumo, che appariva nero alla luce del sole, assomigliava ad una fiamma durante la notte. Il Venerdì Santo, 28 Marzo, alle ore sette della sera la lava cominciò a ribollire fuori dalla bocca del vulcano, formando dapprima una sola colata, poi, separandosi in due parti, prese a scendere verso Portici. Fu preceduta da una violenta esplosione che causò un breve terremoto nelle vicinanze della montagna; nel medesimo tempo, una grandinata di pietre roventi e di ceneri infuocate venne scagliata a grande altezza. Non appena vidi la lava lasciai Napoli…

Trascorsi tutta la notte sulla montagna e notai che, per quanto le pietre infuocate fossero proiettate in maggior quantità e ad un'altezza molto più grande che prima della fuoriuscita della lava, il fragore delle esplosioni era meno forte di quanto lo fosse prima dell'eruzione. La lava percorse quasi un miglio nell'arco di un'ora fino a che i due fiumi si riunirono in un avvallamento sul fianco della montagna, senza procedere oltre. Mi avvicinai alla bocca del vulcano fino a che la prudenza me lo permetteva e vidi che la lava aveva assunto l'apparenza di un fiume di metallo rosso e liquefatto così come lo si vede nelle vetrerie: sulla sua superficie galleggiavano grossi blocchi di ceneri infuocate che, precipitandosi gli uni sugli altri lungo i fianchi della montagna, formavano una cascata splendida quanto singolare.

Il colore del fuoco apparve molto più chiaro e splendente la prima sera che non le seguenti, finché divenne infine di un rosso cupo, forse perché all'inizio era più impregnato di materie sulfuree. In pieno giorno, a meno di non avvicinarsi moltissimo, la lava non dà l'impressione di un fuoco, ma un denso fumo bianco ne segna il percorso.

Il giorno 29, la montagna era molto calma e la lava smise di colare. Il 30 riprese a scorrere nella stessa direzione, mentre la bocca del vulcano espelleva ogni minuto una girandola di rosse pietre infuocate ad un'altezza immensa. Il 31 trascorsi tutta la notte sulla montagna: la lava non era così abbondante come la prima notte, ma le pietre infuocate erano assolutamente trasparenti. Alcune, che ritenni pesassero circa una tonnellata, furono proiettate in verticale ad almeno duecento piedi di altezza e ricaddero nella bocca o vicino alla bocca di un monticello che si era andato formando, per la quantità di ceneri e di pietre, all'interno della grande bocca del vulcano; questo fatto rendeva l'avvicinamento molto meno pericoloso di quanto lo fosse stato alcuni giorni prima, quando la bocca aveva circa mezzo miglio di circonferenza e le pietre venivano proiettate in tutte le direzioni...

Dal 31 marzo al 9 aprile la lava continuò a colare dal medesimo lato della montagna in due, tre e talvolta quattro rami, senza tuttavia scendere molto più in basso di quanto lo avesse fatto la prima notte. Ho notato una specie di intermittenza alla furia della montagna, furia che sembrava manifestarsi a notti alterne con violenza".

Il 10 dicembre del 1766 l'eruzione cessò dopo essere durata nove mesi, ma Sir W. Hamilton continuò ad osservare il Vesuvio per cui interessantissimo risulta il suo resoconto della grande eruzione del 1767 che iniziò il 19 ottobre e "che è la ventisettesima registrata dopo quella che, ai tempi di Tito, distrusse Ercolano e Pompei… è pertanto fuori dubbio che qualsiasi materia situata tra queste due città e l'attuale superficie del terreno che le ricopre, deve essere stata prodotta dopo l'anno 79 dell'era cristiana. Pompei, che sorgeva ad una maggior distanza dal vulcano che non Ercolano, subì soltanto gli effetti di un'unica eruzione: è coperta da uno strato di pietra pomice bianca mescolata a frammenti di lava e materie combuste di varie dimensioni; al di sopra vi è un altro strato di buona terra spesso circa due piedi e talvolta di più, dove le vigne crescono rigogliose, salvo in certi punti del vigneto in cui appassiscono a causa di vapori nocivi, qui chiamati mofete, che si levano da sotto la materia combusta... Il lastricato delle strade di Pompei è di lava; anzi, sotto le fondamenta della città, vi è un profondo strato di lava e di materie combuste. Siffatte circostanze, insieme con molte altre, provano incontestabilmente che vi furono eruzioni del Vesuvio che precedettero quella dell'anno 79, che è solo la prima di cui parli la Storia."

Sir W. Hamilton, prestando attenzione continua al fumo che usciva dal cratere, diventò così bravo conoscitore del Vesuvio, da riuscire a predire due eruzioni e con un'altra semplice osservazione, riuscì ad indicare con un certo anticipo, il luogo stesso da cui sarebbe uscita la lava. Infatti, quando il cono del Vesuvio era coperto di neve, egli notò un luogo in cui la neve non rimaneva a lungo e ne dedusse che si trattava della parte più sottile del cratere e che il calore vi faceva fondere la neve. Potè quindi immaginare che, in maniera naturale, la lava, cercando uno sfogo, avrebbe forzato più rapidamente quel passaggio, come in realtà avvenne.

Lo scrittore ci descrive anche la grande confusione della notte del lunedì 19 ottobre 1767 in cui le chiese erano stracolme e le strade ingombre di processioni religiose; i detenuti delle carceri ferirono il custode nel tentativo di evadere e il popolino diede fuoco al portone del Cardinale Arcivescovo il quale si rifiutava di esporre le reliquie di san Gennaro. Tuttavia, poiché si continuavano a udire boati terrificanti e le ceneri piovevano in grande abbondanza su Napoli fino a coprire i vascelli in mare a venti leghe di distanza, il Cardinale fu costretto ad esporre la Testa di san Gennaro e a condurla in processione fino al Ponte della Maddalena, all'estremità di Napoli verso il Vesuvio, dove si attesta che l'eruzione cessò nel momento stesso in cui vi giunse il Santo e per tutto il giorno successivo non si udì più alcun rumore anche se la lava continuò a colare e dal cratere continuarono ad uscire pietre e cenere.

Secondo la narrazione la lava colò così abbondantemente da riempire una forra, chiamata Fossa Grande, scavata dallo scorrere dell'acqua piovana nella quale rimase fumante e calda per parecchi mesi come ebbe modo di sperimentare egli stesso, infilando nei crepacci della lava dei bastoni che presero subito fuoco.

Sabato 24 la lava smise di colare e Sir W. H. osservò che quella volta, diversamente da come era accaduto nell'eruzione del 1766, il Vesuvio continuò a lanciare pietre.

Domenica 25 invece, registrò che "fini ceneri, uscendo dal cratere, formavano un'immensa colonna nera, la cui ombra si stagliava sulla superficie del mare. Fulmini bicuspidi o zigzaganti sfuggivano da quella colonna scura accompagnati da un tuono che si sentiva nelle vicinanze della montagna ma non a Napoli."

Questo fenomeno lo colpì molto piacevolmente perché fino a quel momento egli ne aveva soltanto sentito parlare dagli anziani del posto e ne aveva letto nei resoconti delle grandi eruzioni dell'Etna e del Vesuvio. Anche Plinio il Giovane, nella sua seconda lettera a Tacito sull'eruzione del Vesuvio sotto Tito, dice che" una nube nera e orribile li ricoprì a Micene ( a circa 15 miglia dal vulcano) e che ne usciva un fuoco serpeggiante simile ad un fulmine, ma più violento" e, cita inoltre, nel lib.II.cap. LI . Hist. Nat. che "a Pompei, in una giornata serena, Marcus Erennius fu colpito da un fulmine."

Ritornando alle sue osservazioni, lunedì 26 il fumo continuò senza i bagliori dei fulmini vulcanici e senza lava per cui egli ne dedusse che "..doveva essersi scavata una via verso qualche caverna più profonda dove covava in silenzio i prossimi disastri…"

Martedì 27 finì ogni attività.

Non solo le osservazioni personali di Sir W. H. risultano estremamente interessanti ma anche i suoi riferimenti storici tratti da resoconti di altri scrittori su questo argomento sono degni di essere menzionati.

Curioso e singolare è quello relativo all'eruzione del Vesuvio nell'anno 1660 in cui si parla di certe ceneri che caddero in forma di croci e furono considerate miracolose. Egli ci riferisce anche la spiegazione filosofica di questo fenomeno trovata nel "DE PRODIGIOSIS CRUCIBUS" a pagina 38, in cui si legge che: "nell'anno 1660, dal 16 agosto al 15 ottobre, il Vesuvio espulse ceneri impregnate di zolfo bituminoso e salino le quali, ricadendo sugli abiti di stoffa assunsero la forma di croci, probabilmente a causa dell'incrociarsi dei fili del tessuto: quei sali infatti non assumevano affatto quella forma quando cadevano sugli abiti di lana".

I vulcani erano veramente il suo argomento prediletto e giacché gli era capitato di leggere in un resoconto di Antonio Bulison che una pietra espulsa dal cratere del Vesuvio nell'anno 1631 era caduta come una bomba sulla casa del marchese di Lauro a Nola e vi aveva appiccato il fuoco, sebbene Nola si trovi piuttosto lontana dal Vesuvio, egli, nel maggio 1771 ci riferisce testualmente :

"…cronometro alla mano, ho rilevato che una di quelle pietre impiegò undici secondi a ricadere dalla sua massima altezza fino nel cratere da cui era stata espulsa. Una pietra compatta, avente 12 piedi di altezza e 45 piedi di circonferenza, fu proiettata ad un quarto di miglio dal cratere. L'eruzione del 1767, per quanto sia stata senz'altro la più violenta di questo secolo, in confronto a quelle dell'anno 79 e del 1631 fu molto modesta."

Tralasciamo la parte anche molto interessante delle sue osservazioni sui basalti e i riferimenti alla formazione delle rocce del Signor de Saussure, professore di Storia Naturale a Ginevra nei cui lavori si parla della capacità del fuoco di scomporre e di liberare contemporaneamente l'acqua e l'aria imprigionate nella terra e nelle pietre calcaree, ma ricordiamo che, in una delle recenti trasmissioni di P. Angela,"Ulisse", si è sottolineato proprio che, dell'universo sotterraneo parzialmente sconosciuto, 50 nuove specie di minerali sono state studiate per applicare le loro proprietà fisiche. Abbiamo il dovere, pertanto, di essere attenti alle dinamiche interne dei vulcani, di pianificare interventi e prevenzione che possano addomesticarli, di non sottovalutare le esercitazioni anticalamità e le simulazioni che, penetrando nella psicologia delle persone, a partire da quando sono piccole, diventano un habitus mentale che aiuta certamente all'occorrenza.

 

I ragazzi che hanno partecipato al presente lavoro, hanno prodotto infine un breve resoconto sui vulcani in lingua inglese, a conclusione delle proiezioni illustrate durante le lezioni collegiali tenute dai professori di scienze e si sono "divertiti" nella ricerca dei vocaboli per loro più significativi. Entrambi gli elaborati vengono qui di seguito riportati.

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