Le ombre degli ombrelloni si allungavano languidamente
sulla spiaggia. Era quell’ora indefinita in cui tutto pare sospeso in un
istante senza tempo, tra il vociare dei bagnanti e il futile
chiacchierare degli happy hour, prima del rutilante frastuono delle
discoteche.
Gli piacevano questi momenti in cui il tempo pare fermarsi, quando si
fermano gioie e sofferenze, sospiri e amori, quando anche la pena più
straziante pare ovattata dal silenzio più irreale.
Non era silenzio, in realtà, ma soltanto una sospensione del rumore:
alcuni cani correvano sul bagnasciuga, ebbri di libertà, abbaiando ai
pochi solitari, romantici pensatori, che misuravano la sabbia bagnata
nel passo cadenzato del ricordo, mentre l’orizzonte del mare più bigio
trascolorava in madreperla. Tutti erano ormai a cena nello stanco rito
delle pensioni; qualche bagnino rastrellava la sabbia e chiudeva gli
ultimi ombrelloni lasciati aperti dall’ultimo indolente turista .
Anche Mario stava annodando l’ultimo ombrellone: la giornata era stata
splendida, ma il vento della sera – ormai lo conosceva da tempo – faceva
presagire un brusco cambiamento di clima. I turisti non lo sapevano, ed
era meglio così. Le mani nodose ripercorrevano gesti antichi, compiuti
ormai quasi inavvertitamente.
“Raccontami una storia, come quelle che solo tu sai raccontare, come
quando ero bambina”.
La ragazza gli s’era avvicinata con il passo indolente dei piedi scalzi
e con la tenera sfrontatezza di un’adolescente. Non se n’era accorto, ed
era trasalito. Chi era questa bellezza, forse ancora inconsapevole di
esserlo, che gli si era rivolta risoluta?
L’aveva osservata meglio, ma non l’aveva riconosciuta, era allora
intervenuta la vecchia signora Pina, memoria storica del bagno
Arcobaleno:
“Come sei diffidente! Non la riconosci? È la figlia di Alberto!”
È vero, quella bambina l’aveva presa in braccio, ed ora…come passa il
tempo, si dice sempre così, un po’ retorici, lo si vede sempre dai figli
che crescono implacabilmente, da bambini diventano ragazzi, e poi adulti
…
Già, i figli…
Una lacrima aveva offuscato per un secondo gli occhi cerulei
dell’anziano bagnino; quel suo volto abbronzato e solcato di rughe
sapeva piegarsi anche a un moto di commozione.
Anche lui aveva, o forse aveva avuto, una figlia. La ricordava giovane e
bella, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi celesti sempre ridenti;
era un uragano di vitalità e di emozioni; senza accorgersene conquistava
tutti con il sorriso timido e dolce della madre. Era felice e non sapeva
di esserlo; le sue estati passavano in un lampo fra amicizie e amori,
bagni in mare e corse in motorino.
Era eterea e sfuggente, sprezzante e languida, inafferrabile e
incomprensibile e forse per questo inutilmente intrigante; rideva e si
gettava alle spalle malinconie e futili incontri.
Era una trasparente medusa e un’ostrica attaccata allo scoglio; sfuggiva
e si attaccava come un’alga marina; volava, libero gabbiano; ammaliava,
sirena incantatrice.
“Era una gioia vederla e sentire il suo sorriso – l’anziano bagnino si
stupì nel sentirsi raccontare una storia, la sua storia a una ragazza
pressoché sconosciuta - ; sembrava nata dal mare e del mare vivere,
delle albe primaverili e delle aurore rosate, del cicaleccio estivo dei
turisti e delle lunghe storie narrate dalla gente di mare nelle monotone
serate invernali.”
Poi, un giorno, tutto era cambiato. Era arrivato lui e gli occhi di
Carlotta avevano cambiato colore: l’azzurro era ora sorridente e
perduto, ora torbido, ma pur sempre incantato. Di lui non si sapeva
nulla: non si sapeva da dove venisse, che cosa facesse: la sua attività
aveva a che fare con il mare, ma non era neppure un romantico pirata o
contrabbandiere, ancora meno, un facoltoso armatore. Non era bello, né
aveva il fascino torbido e romantico del lupi di mare; nessuno sa come e
dove si fossero conosciuti, ma lei era irrimediabilmente persa.
Mare color del vino
mare tempesta e bonaccia
mare dei pirati e delle sirene
ammaliatore e assassino.
Cantano le sirene
ululano le onde
il tuo fragore lontano
canta
gioia e disperazione
amore e morte.
Quella sera in riva al mare - com’è banale eppure sempre nuovo l’amore -
quando si erano baciati per la prima volta, lui le aveva lasciato in
mano una conchiglia, una conchiglia esotica di mari lontani; doveva
tenerla per sempre, non separarsene mai.
E invece era lei, e invece era la sua vita che lui si era ormai tenuto
per sempre.
La conchiglia era diventata un ciondolo appeso alla catenina, e spiccava
sulla pelle abbronzata della ragazza.
Mare oceano lontano
e minaccioso
azzurro indefinito
rosso di sangue
nei tramonti di Grecia
verde come i tuoi occhi
torbido grigio
cangiante sfuggente
infida promessa.
Il porto di Ancona non è grande e attrezzato come quelli di Genova e di
Napoli, ma in quella giornata di sole aveva un fascino particolare: il
cielo terso, di un azzurro intenso, si rifletteva nel mare, dove
pigramente si attardavano i tristi traghetti per la Croazia e per la
Grecia; in alto si ergeva il promontorio del Conero, bianca contro il
cielo la chiesa di San Ciriaco, testimone da anni di addii e partenze.
Lui partiva e lei, con l’incoscienza dei vent’anni, lo stava seguendo:
per lei il mare non sarebbe più stato quello degli stabilimenti balneari
e delle discoteche, ma un mare più duro e forse più vero: le giornate in
mare aperto, le scatolette mangiate mentre infuria la tempesta, amore
sotto coperta, ma anche vomito, angoscia, frangersi dei flutti. Sarebbe
stato la splendida sensazione di isolamento in un mattino di sole
dorato, su una superficie appena increspata, ma anche odore di nafta e
di sconforto, gli sguardi strani dei frequentatori delle disadorne
capitanerie - una donna qui, perché? - , un senso di nostalgia, ma
tuttavia di appartenenza ormai ossessiva a quel mondo che ormai l’aveva
soggiogata.
Il bagno Arcobaleno era orfano delle sue risa e dei suoi occhi; sul
pannello affisso da Mario a una parete del bar puntine e cartoline
aumentavano sempre di più: non soltanto le scogliere della Bretagna o le
spiagge melmose della Normandia, ma luoghi esotici, lontani, degni della
navigazione di un pirata. L’Adriatico, il suo mare, gli appariva ormai
una pozza d’acqua.
L’ultima cartolina, ormai ingiallita e arricciata dal tempo e
dall’umidità, era giunta da Nauplia.
Sera d’estate a Nauplia: allegri i turisti sciamavano per il lungomare
sotto il castello; in quello spiazzo un gruppo di suonatori sudamericani
cantava melodie di struggente malinconia.
E qualcosa accadde: passione e dolore, tormento e buio profondo, urlo
lancinante in un cuore ebbro di emozioni mai sopite. E forse il
desiderio di una gioia sconfinata, ma che faceva paura, e poi il
baratro.
Non era più tornata; qualche mese dopo, lui era stato visto passare di
fretta, come un ladro, al bagno Arcobaleno, forse alla ricerca di
ricordi. “Non mi perdonerò mai di non essere riuscito a fermarlo: al
polso aveva una catenina con una conchiglia.”- e una lacrima scese sulla
guancia bruna del bagnino.
La ragazza fuggì, veloce come un pensiero, leggera come un’ala di
gabbiano. La storia l’aveva avvinta, ma le aveva fatto paura. Lente
erano ormai discese le ombre della notte; le luci del molo si
accendevano; dalla strada un suono di clacson e un vociare sguaiato, non
più sogni lievi come arcobaleni e torbidi come la tempesta.
Mani ormai vecchie ripetevano gesti antichi.
Un’inutile danza di gabbiani vorticava intorno a un lampione.
Elisabetta Rizzo
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