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 Ricette francesi

     

“Ci sono anch’io”. L’attenzione di Pia fu attratta dal titolo di un breve trafiletto su una rivista; si trattava di un concorso di scrittura creativa riservato alle donne. La scelta della frase le parve discutibile, come se la presenza femminile non fosse scontata ma andasse ribadita con questa timida affermazione: “Ci sono anch’io”. Poi però si rese conto che  in quelle  quattro parole poteva essere riassunta la sua intera vita: non le aveva mai pronunciate ma avrebbe dovuto farlo continuamente dal momento della sua nascita.

Quando era venuta al mondo, per seconda dopo uno splendido maschietto di più di tre chili, si era subito trovata nel ruolo di attrice non protagonista, una femmina leggermente sottopeso (parto gemellare), ma non abbastanza da meritare una sosta nell’incubatrice che potesse restituirle un po’ dell’attenzione che tutta la famiglia riservava al gemellino. Crescendo, mentre lui precocemente  manifestava, tra il visibilio del parentado, un carattere energico e risoluto, lei aveva sviluppato un atteggiamento rinunciatario e conciliante che l’aveva portava a chiudersi nel suo mondo, sempre timorosa e insicura. Anche nel fisico non aveva nulla di aggressivo, minuta, slavata, gli occhi azzurro pallido, la pelle lattea, i capelli biondastri, nulla a che vedere con la presenza ingombrante del fratello, robusto, alto, scuro, la fotocopia dei genitori. Per capire come avesse fatto a nascere una figlia così nella loro famiglia, erano dovuti andare indietro di due generazioni, alla zia Lucilla, della quale s’era quasi persa la memoria, essendo morta giovane dopo aver preso i voti come suora di clausura. Il sentirsi continuamente paragonata alla “povera Lucilla”- che aveva pure avuto la tubercolosi e forse anche la difterite - non era stato certo uno stimolo per il suo sviluppo psichico di bambina debole e riservata, che camminava sempre in punta di piedi per non disturbare. Ed effettivamente aveva dato poco fastidio: dopo un curriculum scolastico nella norma, si era iscritta alle magistrali dove, senza infamia e senza lode, aveva conseguito il diploma, mentre il fratello mieteva successi al liceo classico, premessa di una brillante carriera di avvocato. Poi, unico colpo di testa, invece che mettersi in graduatoria per l’insegnamento alle elementari, si era presa una laurea in lettere e quindi, rimandando di qualche anno la linea tracciata dal destino, si era messa a fare supplenze nella scuola media. Quasi contemporaneamente era entrata di ruolo e si era sposata con un giovane ingegnere non bello né brutto, ma dotato di forte personalità. E così, dopo anni all’ombra del fratello, era passata sotto la giurisdizione di un marito che l’aveva scelta proprio per la sua pacatezza e la sua arrendevolezza, garanzia di una vita familiare senza problemi, tra un impegno di lavoro ed un’avventura erotica. Era andata avanti in questo modo, sempre ai margini, figura sfuocata che la gente raramente ricordava: con amarezza un giorno aveva realizzato che spesso le persone le si presentavano due volte, dimenticando di averla già conosciuta in una precedente occasione. Aveva avuto  due figli che erano cresciuti arroganti come il padre (e i nonni) ed ora si trovava a dover fronteggiare due adolescenti problematici, pieni di pretese; ed anche in questo caso si era messa da parte, anteponendo sempre le loro esigenze alle proprie, incapace di prendere una posizione ferma. Inutile dire che  la sua vita lavorativa era stata contrassegnata dallo stesso spirito di abnegazione e rassegnazione: tutti, dal preside ai colleghi, dagli allievi ai bidelli, approfittavano del suo carattere disponibile e servizievole, con il risultato che sgobbava più degli altri per raccogliere meno gratificazioni.

Così era arrivata a quarantadue anni senza sentire neppure il bisogno di dire: “Ci sono anch’io”. Questa frase, nella sua lapidaria banalità, cominciò a risuonarle nella testa, infondendole dopo una vita di inerzia una specie di energia nuova, un desiderio di affermazione che non voleva dire protagonismo o prevaricazione (non sarebbe mai stata capace di concepire nulla di simile) ma semplicemente consapevolezza del proprio “esserci”. Presa da una strana irrequietezza, andò su internet e scaricò il bando di concorso. A quel punto realizzò con sgomento che non aveva storie da raccontare: non certo qualcosa di autobiografico, la sua vita le sembrava  povera di eventi come  una pagina bianca, una lavagna cancellata, il vuoto spinto… Persa in questi avvilenti paragoni, fu presa da una profonda frustrazione, come se quel  tentativo di uscire dal carcere che gli altri le avevano costruito intorno si dovesse esaurire nel nulla, il solito nulla con cui si erano concluse le sue periodiche speranze di una svolta. Cominciò a passare al vaglio le sue conoscenti, parenti, colleghe per cercare di trarre qualche ispirazione, ma si rese conto che anche la loro esistenza era come la sua, priva di grandi avvenimenti, per nulla romanzesca, uno scorrere tranquillo su binari prestabiliti, il lavoro, la famiglia, i problemi quotidiani. In quella giornata fu un’altra presa di coscienza: lei, la grigia, insignificante donna che credeva di essere, in fondo aveva avuto una vita non troppo diversa da quella degli altri, delle persone cosiddette normali, Di nuovo l’euforia la colse: cominciò a sfogliare le storie di artiste che affollavano la sua libreria di cultrice fervente delle arti figurative; forse da quelle donne eccezionali le sarebbe venuto qualche spunto interessante. Scartò Artemisia Gentileschi,  troppo scontata, e poi a parte il matrimonio di convenienza era quasi una femminista ante litteram, non aveva bisogno di una rivalutazione postuma. Delle altre, come Sofonisba Anguissola o Lavinia Fontana, non sapeva molto. Delle più moderne, come Frida Kahlo o Meret Oppenheim, sapeva fin troppo. L’occhio le cadde su un libercolo in francese su Camille Claudel, la valente scultrice, perdutamente innamorata di Rodin, che aveva concluso la vita in un manicomio, dopo che il suo grande amore, il genio assoluto, l’aveva non solo abbandonata ma anche subdolamente sfruttata, copiando le sue rivoluzionarie idee artistiche. Aveva visto anche un film anni prima con Gerard Depardieu perfettamente calato nei panni dell’invadente scultore. Fu una folgorazione: Pia avrebbe riscritto la storia e l’avrebbe intitolata, con un gioco di parole un po’ stupido, “Claudine Camille”. Si mise subito al computer e scrisse della bella artista, del suo talento precoce, della sua personalità affascinante e ribelle, dell’affermato  scultore che prova a sedurla e nel contempo a carpire le sue creazioni. Mentre era nel punto cruciale, una scena ricca di bruciante sensualità, si rese conto che anche la peperonata stava per fare la stessa fine; corse a spegnere il fuoco e realizzò che, dietro alle vicissitudini di Claudine, il tempo era volato ed ora era in ritardo con la cena. Chiuse il computer dopo aver salvato il file sotto l’innocuo titolo “Ricette francesi”, nella certezza che nessuno lo avrebbe aperto. Da quel giorno, ogni pomeriggio, nello spazio che si ritagliava tra una correzione dei compiti e una faccenda di casa, continuò nella narrazione, che diventava sempre più complicata, con momenti puramente descrittivi, altri decisamente avventurosi, altri ricchi di una torbida passionalità, un intreccio degno di un romanzo d’appendice dell’Ottocento. Capì che la trama le stava prendendo la mano quando imbastì una sorta di triangolo tra la giovane donna, il maturo scultore e il suo allievo più promettente, un seducente ventenne, arrivista e spregiudicato, dotato di uno sguardo che sembrava “una lama di fuoco gelido”. Rise tra sé, pensando alla sua vita spenta, alla sua unica e deludente esperienza sentimentale, al grigiore degli anni matrimoniali, che non le impedivano di creare, come una specie di riscatto, una vicenda così intrigante, “piena di risvolti scabrosi”. Andò avanti quasi per un mese, aspettando con ansia crescente il momento in cui apriva il file e si immergeva nel mondo della Belle Epoque. Ad un certo punto si rese conto che il materiale narrativo si era gonfiato esageratamente fra le sue mani: tra un tradimento, un bacio rubato, un brillante successo professionale, accanto alla protagonista avevano preso vita decine di comparse di vario tipo, volte a ricostruire il quadro variegato di una società mondana dove non esisteva scrupolo e si inseguiva il denaro, il piacere, la notorietà… Incominciò quindi un’attenta opera di revisione e rifinitura, che era meno entusiasmante ma comunque interessante perché le consentiva di dare un nuovo spessore umano a Claudine, la cui psicologia andava affinandosi nella tensione tra l’ansia di emergere come artista e il desiderio di costruire rapporti affettivi più sinceri. Anche dopo questa accurata ripulitura, che la impegnò per diversi giorni, la conclusione del suo “polpettone francese” rimase tal quale – ed era quella che il suo subconscio si era sempre augurato dalla prima volta che aveva letto la vicenda: l’arrogante maestro Gustav R. veniva trascinato via schiumante di rabbia per essere internato in un manicomio, mentre l’altera allieva, ancora con lo scalpello tra le mani, “lo guardava impassibile, cerea e fredda come la statua di marmo che stava creando”. Soddisfatta, rilesse un’ultima volta, stampò, andò alla posta e fece una raccomandata con ricevuta di ritorno.
Mentre tornava a casa, tenendo in mano lo scontrino dell’ufficio postale, sapeva che un simile intreccio non avrebbe mai potuto interessare una giuria di inizio III millennio. Però era certa di una cosa: se era riuscita a capovolgere la vita di Camille  Claudel, era giunto il momento di fare lo stesso anche con la propria.

Armanda Bertini


 

 

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