Caro Babbo Natale,
so che sei molto occupato in questi giorni a ridosso del
Natale, ma voglio scriverti lo stesso, nella speranza che tu possa
leggere la mia letterina.
Ho tredici anni,
frequento la terza media, e stamattina ho ucciso la mia insegnante di
Lettere. Io alla prof volevo tanto bene, stavo attento alle sue
spiegazioni, mi impegnavo nello studio, anche se lei ci caricava di
compiti, soprattutto nel giorno del rientro pomeridiano, tanto che ho
dovuto smettere di studiare il pianoforte che mi piaceva tanto. Leggevo
sempre i libri che ci consigliava durante le vacanze natalizie e quelle
estive. Lei diceva sempre: “Leggete, leggete, migliorerete nello
scrivere!” Ed io leggevo, leggevo, leggevo anche altri libri oltre a
quelli che ci consigliava, e quando al ritorno dalle vacanze io glielo
dicevo lei si arrabbiava moltissimo e mi rimproverava dicendo che a lei
importava solo dei libri che ci aveva assegnato (pare li studiass…li
leggesse anche lei durante le vacanze) e gli altri erano solo porcherie
delle quali non valeva la pena parlare, soprattutto perché sicuramente,
diceva lei, non ci avevo capito niente. Io volevo solo farle piacere,
pensa, caro Babbo, che quest’estate ho letto pure due libri che mi ha
dato mia sorella più grande, i Promessi sposi e le novelle di Giovanni
Verga, due vere porcherie certamente, che a me però sono tanto piaciuti…
Si vede che sono un vero stupido, proprio come mi dice la prof!
Quando facciamo i compiti in classe non arrivo mai alla sufficienza. Le
prime volte le chiedevo come mai, dato che non c’erano segni rossi sul
foglio, e lei rispondeva sempre che il tema era banale, insulso,
elementare, poco organico, confuso, arido e inconcludente. Lei me lo
diceva per il mio bene, ma io invece ci rimanevo male. Così, per non
soffrire ancora, quando portava i compiti corretti, incassavo la mia
ormai ovvia non sufficienza e stavo zitto. Tormentavo la mamma perché
andasse a parlarle nell’ora di ricevimento settimanale, lei prendeva
un’ora di permesso dal lavoro, e quando riusciva a parlarle (non era
raro il caso in cui, giunta a scuola, il bidello le riferisse che la
prof oggi non poteva proprio riceverla) era sempre la solita storia:
“Signora, suo figlio è limitato, arriva sino ad un certo punto e poi…
sembra quasi che stacchi la spina al cervello! Gli altri sono sempre
pronti, con la mano alzata, non danno nemmeno il tempo a chi è
interrogato di rispondere alla domanda che fanno a gara a chi risponde
per primo. Suo figlio invece è una cosa amorfa, c’è o non c’è è la
stessa cosa. Pensi che un giorno l’ho scritto sul registro tra gli
assenti e invece lui era là, seduto al suo posto in silenzio!”. La
mamma, quando andava a parlare con la prof nel giorno di ricevimento,
tornava a casa sempre di malumore, la sera parlava con papà in disparte
in cucina, e i suoi discorsi cominciavano sempre con: “Quella cretina…”.
Sicuramente non si riferiva alla mia prof che è una donna intelligente e
di classe, pensa che non tocca neppure il gesso e chiama sempre qualcuno
di noi per scrivere alla lavagna. Dice di avere la pelle delicata, “non
come quella delle casalinghe che conoscete voi che a furia di lavare
piatti e panni sporchi si sono fatte venire i calli alle mani!”. Io
spero sempre che chiami me per scrivere alla lavagna, ma in tre anni non
è mai successo, dice che non si fida, che non sarei in grado di scrivere
correttamente neanche sotto dettatura… Così chiama sempre Piergiacomo,
il figlio del sindaco, o Giorgia, la figlia di una sua amica, l’unica
dalla quale si fa dare del tu e si fa chiamare per nome.
Oggi ci ha portato l’ultimo compito in classe corretto prima di
congedarci per le vacanze natalizie. Guardo il voto, ancora non
sufficiente. Resto seduto in silenzio, lei mi provoca: “Simone, non hai
niente da dire tu dall’alto della tua supponenza? Non fai commenti
caustici sugli errori o, per meglio dire, orrori che ho segnato?”.
Spinto dalla curiosità (ormai leggevo solo il voto e non guardavo più
gli errori) apro il foglio. Un solo segno rosso, spesso, calcato, la
furia della penna aveva consumato il foglio e l’aveva bucato. La frase
incriminata è: “Dissi al mio amico di andare a mangiare insieme una cosa
al fast food” ed il segno rosso faceva risaltare la parola “cosa”. “Che
approssimazione, che ineleganza, che improprietà…” Il suono della
campana giunge come un segno di salvezza. I compagni in fretta e furia
mettono quello che resta sul banco nello zaino e infilano i giubbotti,
io faccio lo stesso. “E no!” fa lei “Troppo comodo mister sottuttoio!
Voi andate,” dice rivolta ai compagni che in tre secondi sono tutti
spariti “tu resti.” Chiama il bidello, gli dice qualcosa all’orecchio e
quello, in men che non si dica, torna con in mano, reggendolo a fatica,
un dizionario della lingua italiana di non so quante migliaia di pagine
che sbatte sul primo banco vicino alla cattedra. “Io devo aspettare
l’arrivo dell’autobus per tornare a casa,” fa lei “abbiamo tutto il
tempo che ti serve.” Che mi serve per che cosa, mi chiedo un po’
impaurito. “Adesso, caro Simone, ti siedi qui a primo banco davanti a
me, apri il dizionario, cerchi la parola “cosa” e copi sul quaderno
tutte le definizioni della parola. Sbrigati!” E’ buona la prof, lo fa
per me, per il mio bene, perché vuole che io utilizzi un lessico più
ricercato e come vedi, caro Babbo Natale, sono già sulla buona strada.
Bene, coraggio, mi dico aprendo il dizionario, mentre la prof ha tirato
fuori dalla borsa una limetta per unghie e sta facendo manicure.
Comincio. Cosa = s.f. 1. Nome estremamente generico che riceve
determinazione solo dal contesto del discorso. C’era un contesto nel
mio discorso? Mah, vado avanti. Oggetto ideale o materiale. E
continuo, in fretta, la mano fa male ma devo far presto, nonostante mi
abbia punito, non vorrei che la prof perdesse l’autobus e tornasse in
ritardo dalla sua famiglia per causa mia. 2. In diritto, contenuto di
un atto giuridico o parte del mondo esterno capace di essere
assoggettata al nostro potere e idonea a produrre un’utilità economica.
Cosa preparava oggi la mamma? Ah,sì, cotolette e purea di patate, il mio
secondo piatto preferito dopo il pollo arrosto con le patate al forno!
Mannaggia mi devo proprio sbrigare! Fatto accaduto, il contenuto di
un’azione. Alle tre viene mio cugino a giocare alla play station…
Vola, mano, vola! Unito ad un aggettivo qualificativo, prende il
significato dell’astratto corrispondente. Nooo, mi sto perdendo il
mio cartone preferito!
Scrivo le ultime definizioni con una scrittura indecifrabile, la mano è
gonfia e violacea, sento i tendini che stanno per cedere, penso alla
mamma preoccupata che non mi vede arrivare, la vedo sollevare il
ricevitore del telefono per chiamare uno dei miei compagni. Ecco, ci
sono, le ultime parole… “Finito!” urlo, mentre mi alzo in piedi,
conservo il quaderno, la penna, sollevo con tutte le mie forze il
pesante dizionario e lo lancio verso la cattedra per spostare il banco
ed uscire. La prof lancia un leggero lamento, il rumore più forte è il
tonfo della testa colpita dal dizionario quando cade sulla cattedra. Le
braccia sono scivolate ai fianchi, e accanto alla testa, oltre al
dizionario e a qualche spruzzo di sangue, c’è la limetta per unghie.
L’aula è a pian terreno, vicino al portone. Dei bidelli nemmeno l’ombra.
Esco e faccio la strada di corsa, giunto a casa devo pure sentire i
rimproveri della mamma. Scanso a stento l’albero di Natale che abbiamo
preparato in soggiorno e corro in bagno. E qui mi viene in mente di
scriverti. Avrei potuto rivolgermi a Dio, ma, che io sappia, lui non
riceve lettere. Non credo alla tua esistenza, caro Babbo Natale, ormai
da qualche anno, ma adesso ho proprio bisogno di crederci. Ho bisogno di
rivolgermi a qualcuno che mi possa aiutare facendo qualche magia, perché
solo quella mi può salvare. Caro Babbo Natale, pensi che mi daranno una
sospensione? Non potresti far diventare buono buono buono il nostro
preside così da farmi perdonare? Porca miseria, sono proprio sfortunato!
E poi, proprio alla mia prof preferita doveva capitare. Uffa, mi sa che
al rientro avremo qualche noiosa supplente…
Simone
Clara Salafia
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