C’è un posto, nel
mondo, chiamato semplicemente “il posto”. E’ un posto fatto apposta per
appostarcisi, e per aspettare i segnali della vita. Segnali che
arrivano, prima o poi, anche se spesso sono solo voci senza senso.
Telefonate. Messaggi. Gesti. Ma tu non lo sai, che sono senza senso. Lo
scopri solo dopo, quando è tardi. E fino ad allora devi stare nel posto,
devi stare al tuo posto. E aspettare. Nel posto c’è anche un posteggio,
puoi andarci con la macchina e aspettare. Puoi guardare dal finestrino,
vedere la gente vivere e fissare le lancette dell’orologio che non si
muovono mai. Puoi pensare che la macchina serva, perché ci sono sempre
dei bagagli da portarsi via dalla vita. E quando il segnale arriva, puoi
sempre mettere in moto, e partire.
Io mi trovai nel posto una mattina d’agosto, verso le otto. Caldo, ma
non troppo. Era presto. La chiamata arrivò abbastanza puntuale: “Vieni.”
Ricordo un viaggio facile: sapevo la strada. E al termine di ogni
viaggio c’è sempre qualcuno che aspetta, anche se non sempre è quello
che aspettavi tu. “Buongiorno”. Un saluto non costa niente, è quasi un
automatismo. Rispondo con un cenno e parcheggio; lui mi guarda appena e
sparisce, ci pensa. Non è pericoloso come pensavo. La camera di lei è
piena di roba da portare via. Roba un po’ alla rinfusa, forse l’accumulo
di una vita. La mettiamo nelle borse, in silenzio. Partiamo verso quello
che sembra un viaggio senza ritorno. Il posto è ancora là, al suo posto.
Brutto, anonimo, silenzioso. Passandoci davanti, non lo guardo neppure.
E invece avrei fatto meglio a farlo, a fermarmi al mio posto. Ma è solo
il senno di poi, e ormai è tardi.
Da piccoli ti insegnano delle fesserie, che però
ti restano dentro finché da grande, a volte, scopri che hanno anche un
senso. Una di queste diceva “chi va arrosto perde il posto”. Che detto
idiota.
Già. Ma almeno chi va arrosto può sempre dire di avere un pezzo di carne
da mangiare.
Forse lui ha fatto
bene a pensarci. Dovevo farlo anch’io.
Paola Lerza
|