La luce filtrava radente
attraverso le veneziane, accarezzando la polvere dei libri. In un
triangolo illuminato il pulviscolo danzava. I ventilatori ronzavano nel
silenzio di un afoso pomeriggio estivo.
Era tornata al dipartimento di antichistica dopo tanti anni, dieci
forse. Non c’era più nella guardiola il vecchio, buon usciere, ma
soltanto l’impiegata mora dal sorriso acido. Carlotta non aveva più il
badge universitario, ma la signora l’aveva fatta entrare lo stesso.
Forse l’aveva riconosciuta, o forse gradiva un’altra presenza umana,
piccolo diversivo nel noioso pomeriggio.
Carlotta non amava tornare nei
luoghi che rimandavano a una fase ormai conclusa della sua vita: aveva
sognato di fare l’archeologa, e invece si ritrovava a fare supplenze nei
licei. Amava i ragazzi, e i ragazzi ricambiavano il suo entusiasmo.
Quanto all’amore poi… la sua storia con Marco era ormai routine, non era
riuscita a cambiarne l’indolenza e il fatalismo.
Ecco, lo sapeva, tornare sul luogo di tanti ricordi la riportava a
inutili elucubrazioni; ma non era venuta per sottoporsi a un esame di
coscienza.
Per un altro motivo era venuta, e non aveva potuto farne a meno. Ed era
incredibile che una filologa non cercasse fonti o concordanze, ma il
significato di un sogno. È vero, forse era stato uno scherzo del caldo,
o forse della cattiva digestione, ma quell’immagine continuava a
tormentarla. Paesaggi paludosi e inquietanti, sorgenti d’acqua che
nascondevano sepolture, atmosfere nebbiose, ruderi, o forse piramidi… e
nella foschia l’apparizione di occhi gialli. Un gatto nero, con un
cartiglio egiziano incomprensibile, e la scritta in greco thanatos
. Non aveva mai studiato egittologia, ma il greco lo sapeva bene.
Quella scritta significava inequivocabilmente “morte”, e il gatto era
inquietantemente simile a quello della sua amica Irene.
Cercò una spiegazione
soddisfacente su un manuale di interpretazione dei sogni, ma rimase
delusa dagli esiti contrastanti della ricerca: il gatto poteva alludere
al diavolo, ma anche presagire una futura maternità, o ancora poteva
simboleggiare la necessità di ridefinire gli spazi vitali, il contatto
con il corpo e con le sue pulsioni… L’ambientazione “egiziana” la spinse
a cercare risposte nella amata e odiata biblioteca. Sperava di trovarne
un conforto: non è forse vero che i sogni nascondono le nostre paure, e
che spesso significano l’opposto del loro significato apparente? Si
affidò dapprima al Thesaurus della lingua greca, ma le occorrenze
della parola thanatos erano centinaia… Avrebbe potuto cominciare
la ricerca dai testi di ambito egiziano, ma quanto ci avrebbe messo?
Stava quasi per desistere dall’impresa, quando lo sguardo le si posò su
un libro dalla copertina ingiallita, diverso dalle severe edizioni
critiche, forse un testo di divulgazione inserito in biblioteca a
seguito di una donazione. Il titolo, abbastanza banale, era: L’Egitto
tra storia e mistero. Subito l’aprì incuriosita, sfogliando le
pagine avidamente... ecco… ecco quello che cerco… “la dea gatta Bastet…
nel Medio Regno gli Egizi addomesticarono i gatti perché divorassero i
topi che altrimenti avrebbero distrutto i loro granai: essi erano quindi
considerati animali sacri”. Un gatto sacro quello che ho sognato?
Poi la sua attenzione fu attratta dal capitolo Amore ed erotismo…
chi avrebbe pensato che gli austeri Egizi scrivessero poesie ora audaci,
ora tenere? Lesse a bassa voce: “L’amore che ho per te è diffuso nel mio
corpo, al modo che il frutto della mandragola è impregnato di profumo”.
Ma ciò che più la colpì fu l’immagine di una mummia, attribuita a una
principessa adolescente, tale Nefti, che recava accanto la mummia di un
gatto. Nella pagina seguente la foto sbiadita di un papiro,
inquietantemente simile a quello del sogno.
L’autore del testo, collegando in maniera probabilmente fantasiosa le
testimonianze archeologiche con quelle papiracee (in particolare un
certo Papiro Myers, conservato nella Biblioteca di Heidelberg), aveva
così spiegato lo strano ritrovamento: la mummia doveva essere quella di
una principessa del Medio Regno, sepolta accanto a un gatto sacro.
Secondo il papiro, Nefti era stata promessa in sposa a un principe della
Nubia, Sebni, per suggellare un accordo tra i due stati. Nefti aveva
visto di nascosto il futuro sposo e, come spesso accade, le era sembrato
insopportabilmente sgradevole: molto più vecchio di lei, obeso e dal
naso camuso. Ben diverso dal giovane Unamon, di cui era segretamente
innamorata: il ragazzo non era di famiglia nobile, ma era un semplice
addetto alle cerimonie del tempio, e mai una principessa del suo rango
avrebbe potuto sposarlo. Ma cantava con voce ammaliante e il suo corpo
era agile e flessuoso. Così si erano incontrati al chiaro di luna,
vicino al tempio di Ammone: lui le aveva dato in pegno d’amore un gatto
sacro. Abbracciandolo, avrebbe ricordato i suoi furtivi abbracci. Una
notte però l’assenza di Nefti fu scoperta e l’ancella complice degli
incontri dovette confessare. La reazione del faraone fu terribile: non
poteva e non voleva mandare a morte la sua unica figlia, ma soltanto
infliggerle una punizione esemplare. Lei e Myt, il gatto, furono portati
in mezzo al deserto e lì lasciati per dieci giorni. Non tornarono più a
Tebe, e i funerali furono celebrati con grande fasto. Accanto ai corpi
fu ritrovato uno strano cartiglio, in cui Myt lanciava maledizioni
contro i nemici suoi e dei suoi discendenti: per l’eternità: sarebbero
stati colpiti in ciò che essi avevano di più caro. Il faraone preferì
non dare importanza al papiro e la vita a corte procedette come prima.
Ma in breve tempo tutta la famiglia reale perì inspiegabilmente in
circostanze piuttosto strane: febbri improvvise, assalti di briganti.
Perfino un’epidemia colpì l’Egitto.
Carlotta chiuse il libro, turbata.
Che fantasia quest’autore! Sugli Egizi ci si permette di inventare di
tutto, qualcuno li ha persino messi in contatto con gli extraterrestri…
Ma l’immagine del gatto del sogno si ripresentava sempre più ambigua
alla sua mente. Che fare?
Pose lo sguardo sulla bacheca del corridoio e scorse il nome di un
vecchio compagno di studi, ora diventato ricercatore, proprio in
egittologia: si annotò l’e-mail e decise di contattarlo.
Si trovarono in un piccolo bar
vicino alla facoltà: le rispose distrattamente dicendo che sì, era vero,
esisteva un papiro Myers che riportava una maledizione; qualcuno ne
aveva considerato e studiato la specificità, ma poi si era finiti per
catalogarla tra le normali iscrizioni apotropaiche di qualunque tomba
egizia che si rispetti, redatte al solo scopo di allontanare ladri e
sacrileghi. Ma il dott. Mario Cinti sembrava più interessato alla
scollatura di Carlotta che alla sua strana storia. Avrebbe potuto fare
ricerche, si sarebbero potuti incontrare tra una settimana. “No, grazie,
mi hai già detto abbastanza.” rispose laconica.
Non le restava che rivolgersi a Irene… Le avrebbe sicuramente detto di
essere concreta, di far tacere la sua fantasia malata… Ma Myt era troppo
simile a Misty, il micio di Irene…
L’amica l’accolse nel suo colorato
disordine. Era un’eccentrica veterinaria che viveva in un monolocale da
quando il suo fidanzato Alfredo, che fino a poco prima sembrava
completamente perso dietro i suoi occhi, l’aveva lasciata. “O me o il
gatto!” le aveva detto con un tono che non ammetteva repliche. E Irene
aveva ovviamente scelto Misty. Alfredo lo odiava; diceva che i gatti
portano sfortuna e lui, in particolare, gli aveva portato via la sua
donna. Nel tempo libero dalle visite dei suoi adorati pazienti, Irene si
dedicava a curare l’arredamento etnico del suo rifugio e a svolgere
improbabili ricerche sui ferormoni dei felini. Secondo lei avrebbero
potuto essere utilizzati nella cura delle depressioni e delle
immunodeficienze.
Davanti a una tazza di tè Carlotta le raccontò il sogno e le espose
l’esito delle sue ricerche. Irene, nonostante la sua estrosità, aveva
una fiducia incrollabile nella scienza e bollò il tutto come stupide
superstizioni di una romantica letterata, quale considerava l’amica. “E
poi non hai considerato l’immaginario medievale sui gatti… creature di
Satana, compagni delle streghe!” disse ridendo… “Non sai che nell’alto
medioevo il gioco fra gatto e topo fu messo in relazione dagli scrittori
cristiani con il gioco del diavolo con l’anima… E che la donna e il
gatto furono associati nella lussuria e nella vanità?” Scrollò le
spalle, pensando ad Alfredo che continuava a cercarla, dicendo le solite
balle… che non aveva niente di più caro di lei, che non poteva perderla
per uno stupido gatto.
Forse le ansie di Carlotta erano ingiustificate, ma i trascorsi di Irene
non erano certamente rassicuranti: cinque anni prima era stata
ricoverata per una banale appendicite, ma le era stato invece
diagnosticato un tumore all’utero; dopo una misteriosa sparizione delle
cartelle, il referto indicava invece un falso positivo. E poi un
intervento mal riuscito su “cellule impazzite” nelle ossa, che l’aveva
costretta a un lungo percorso di riabilitazione… e ancora una lunga
trafila di operazioni e terapie. Ora da un po’ il male non si mostrava…
Irene voleva vivere e ne negava la presenza. E – pensò Carlotta – faceva
bene; la salutò con un sorriso e con una carezza a Misty.
Non volle più pensare al sogno e
partì per le vacanze con Marco. Ma una notte il gatto si ripresentò
ancora nei suoi sogni. E la mattina dopo il messaggio di Irene: “Sono al
Maggiore per accertamenti”. Le rispose che sarebbe andata a trovarla
appena tornata. Non fece in tempo. Irene era già morta. Chiese allora
alla portinaia le chiavi dell’appartamento: Misty era sparito.
Carlotta non avrebbe mai saputo se
si fosse trattato di una coincidenza o se il gatto del sogno avesse
trasmesso i suoi poteri al suo discendente. E neppure gliene importava
più. Afflitta da sensi di colpa, abbandonò le ricerche, ma scrisse un
racconto. E anche adesso le sembra di avvertire il passo felpato di un
gatto nero.
Elisabetta Rizzo
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