Giovanni
Verga
Da "I Malavoglia"
(….)
Quel sabato, verso sera, la Nunziata venne a prendere un pugno di fave
per i suoi bambini e disse: “Compare Alfio se ne va domani. Sta levando
tutta la sua roba.”
Mena
si fece bianca e smise di tessere.
Nella
casa di compar Alfio c’era il lume, e ogni cosa sottosopra. Egli venne a
picchiare all’uscio poco dopo, e aveva la faccia in un certo modo anche
lui, e faceva e disfaceva dei nodi alla frusta che teneva in mano.
“Son
venuto a salutarvi tutti, compare Maruzza, padron ‘Ntoni, i ragazzi, e
anche voi, comare Mena. Il vino di Aci Catena è finito. – Ora la
Santuzza ha preso quello di massaro Filippo. – Vado alla Bicocca, dove
c’è da fare col mio asino.” Mena non diceva nulla; sua madre sola
aprì la bocca per rispondere: “Volete aspettarlo padron ‘Ntoni? Che avrà
piacere di salutarvi.”
Compar Alfio allora si mise a sedere in punta alla scranna, colla frusta
in mano, e guardava intorno, dalla parte dove non era comare Mena.“Ora
quando tornate?” domandò la Longa
“Chi
lo sa quando tornerò? Io vado dove mi porta il mio asino. Finché dura il
lavoro vi starò; ma vorrei tornare presto qui, se c’è da buscarmi il
pane.”“Guardatevi la salute, compare Alfio. Alla Bicocca mi hanno detto che la
gente muore come le mosche dalla malaria.”
Alfio
si strinse nelle spalle, e disse che non poteva farci nulla.
“Io
non vorrei andarmene,” ripeteva, guardando la candela. “E voi non mi
dite nulla, comare Mena?”
La
ragazza aprì la bocca due o tre volte per dire qualche cosa, ma il cuore
non la resse.
“Anche voi ve ne andate dal vicinato, ora che vi maritano,” aggiunse
Alfio. “Il mondo è fatto come uno stallatico, c’è chi viene e chi se ne
va, e a poco a poco tutti cambiano di posto, e ogni cosa non sembra più
quella.” Così dicendo si fregava le mani e rideva, ma colle labbra e non
col cuore.
“Le
ragazze,” disse la Longa “vanno come Dio le ha destinate. Ora son sempre
allegre e senza pensieri, e com’entrano nel mondo cominciano a conoscere
i guai e i dispiaceri.”
Compar
Alfio, dopo che furono tornati a casa padron ‘Ntoni e i ragazzi,
e li ebbe salutati, non sapeva risolversi a partire, e rimaneva sulla
soglia colla frusta sotto l’ascella, a stringere la mano a questo e a
quello, anche a comare Maruzza, e ripeteva, come si suol fare quando uno
se ne va lontano, e non si sa bene se ci si rivede più: “Perdonatemi se
ho mancato qualche volta.”
La
sola che non gli strinse la mano fu Sant’Agata, la quale stava
rincattucciata vicino al telaio. Ma le ragazze si sa che devono fare
così.
Era
una bella sera di primavera, col chiaro di luna per le strade e nel
cortile, la gente davanti agli usci, e le ragazze che passeggiavano
cantando e tenendosi abbracciate. Mena uscì anche lei a braccetto della
Nunziata, ché in casa si sentiva soffocare.
“Ora
non si vedrà più il lume di compar Alfio, alla sera,” disse Nunziata, “e
la casa rimarrà chiusa.”
Compar Alfio aveva caricato buona parte delle sue cosucce sul carro, e
insaccava quel po’ di paglia che rimaneva nella mangiatoia, intanto che
cocevano quelle quattro fave della minestra.
“Partirete prima del giorno, compar Alfio?” gli domandò Nunziata sulla
porta del cortile.
“Sì,
vado lontano, e quella povera bestia bisogna che si riposi un po’ nella
giornata.”
Mena
non diceva nulla, e stava appoggiata allo stipite a guardar il carro
carico, la casa vuota, il letto mezzo disfatto e la pentola che bolliva
l’ultima volta sul focolare.
“Siete là anche voi, comare Mena?” esclamò Alfio appena la vide, e
lasciò quello che stava facendo.
Ella
disse di sì col capo, e Nunziata intanto era corsa a schiumare la
pentola che riversava, da quella brava massaia che era.
“Così
son contento, che posso dirvi addio anche a voi!” disse Alfio.
“Sono
venuta a salutarvi,” disse lei, e ci aveva il pianto nella gola. “Perché
ci andate alla Bicocca se vi è la malaria?”
Alfio
si mise a ridere, anche questa volta a malincuore, come quando era
andato a dirle addio.
“O
bella! Perché ci vado? E voi perché vi maritate con Brasi Cipolla? Si fa
quel che può, comare Mena. Se avessi potuto far quel che volevo io, lo
sapete cosa avrei fatto! …” Ella lo guardava e lo guardava, cogli occhi
lucenti. “Sarei rimasto qui, che fino i muri mi conoscono, e so dove
mettere le mani, tanto che potrei andar a governare l’asino di notte,
anche al buio; e vi avrei sposata io, comare Mena, ché in cuore vi ci ho
da un pezzo, e vi porto meco alla Bicocca, e dappertutto ove andrò. Ma
questi oramai sono discorsi inutili, e bisogna far quello che si può.
Anche il mio asino va dove lo faccio andare.”
“Ora
addio,” conchiuse Mena, “anch’io ci ho come una spina qui dentro …. Ed
ora che vedrò sempre quella finestra chiusa, mi parrà di averci chiuso
anche il cuore, e d’averci chiuso sopra quella finestra, pesante come
una porta di palmento. – Ma così vuol Dio. Ora vi saluto e me ne vado.”
La
poveretta piangeva cheta cheta, colla mano sugli occhi, e se ne andò
insieme alla Nunziata a piangere sotto il nespolo, al chiaro di luna.(...)
I Malavoglia, ed. Garzanti, pp. 123-125
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