Introduzione |
STORIA FANTASTICA DI UN VULCANO |
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Con il suo dolce, elegante profilo di gigante sembra stendersi sulla spiaggia, specchiandosi nel mare azzurro. Abbandonato ad un sonno placido, suggerisce un’immagine di serena e rassicurante tranquillità.
E’ bello da ammirare il Vesuvio, anche con qualche corona di nuvole bianche e impalpabili che sfiorano la cima. Eppure la visione del taciturno vulcano incute sempre un sottile timore, una diffidenza istintiva, un disagio inquieto; è come se quella bellezza coprisse l’inganno, la minaccia di una creatura feroce, dotata di una potenza inaudita. E allora riaffiorano alla memoria racconti, ricordi, immagini della lava, del fuoco, della cenere, dei lapilli scagliati fuori del ventre profondo, infernale.
Diverse sono le emozioni, come diverse sono le facce, la realtà, la natura della belva di fuoco che sta lì da anni, pronta a seminare distruzione e morte, ma anche ad affascinare generazioni e generazioni. Sono più di cinquant’anni ormai che non fuma neanche più, ma è certo che tornerà ancora a farlo: si sveglierà dopo un lungo sonno, sonno apparente e ingannatore, perché i suoi occhi sono chiusi, ma il suo ventre freme di fuoco ardente e allora, per allontanare il giorno in cui tutto il golfo tornerà a tremare, ci siamo accostati a questa creatura con rispetto per conoscerla, raccogliendo elementi per farne una ricostruzione fantastica. Raccontare una fiaba, una favola, una storia è un po’ come sognare!
Tutto può accadere: ogni ostacolo sarà rimosso per l’intervento di un mezzo magico, il bene trionferà sul male e, usando la frase consueta, si potrebbe auspicare il Tutti vissero felici e contenti.
Traendo spunto da Rodari, siamo andati a ritroso nel tempo, proprio come il giovane gambero desideroso di nuove esperienze.
Gli alunni impegnati nel campo letterario, partiti da uno studio scientifico del Vesuvio, hanno pensato di farne una ricostruzione diversa, nel tentativo di allontanare la paura e il timore che esso incute. Siamo pronti ad iniziare?
Immaginate che il gruppo decida di conoscere più da vicino il proprio territorio, spostandosi indietro nel tempo.
Emozionati per l’insolita avventura, in un battibaleno si ritrovano al cospetto del Vesuvio. Tutto è calmo…..
Stanno per posarsi con la loro astronave in una radura, quando Luca, il più chiacchierone della spedizione, e anche il più curioso, incomincia a dare ai compagni notizie sul vulcano, risalendo all’etimologia del nome, alla formazione e al clima fiabesco creatosi quando gli uomini non erano ancora in grado di decodificare le manifestazioni vulcaniche.
Il Vesuvio - dice - era considerato una divinità e adorato tanto da essere chiamato Iuppiter Vesuvius o Summanus. Alcuni studiosi addirittura fanno risalire il suo nome alla radice ves equivalente al fuoco. Proprio quasi a rafforzare tale ipotesi è nata la leggenda secondo la quale dalle sue viscere sarebbe nato Pulcinella, da sempre emblema della napoletanità.
Mentre Luca racconta, i compagni, sempre più presi da meraviglia, cominciano ad esplorare il luogo. Finalmente stanchi ed appagati, si siedono in circolo e chiedono di ascoltare una storia fantastica.
Luca dà inizio al racconto: -Tanto tempo fa, a Napoli viveva un giovane alto e possente il cui nome era Vesuvio.
Doveva incutere paura, ma a chi lo osservava, appariva come un gigante buono, simile com’era ad un monte ricoperto da ricca vegetazione la cui cima, talvolta, nelle giornate invernali, era nascosta da nubi bianche e soffici che lo occultavano alla vista dei viaggiatori. L’apparenza, però, ingannava e il tempo svelò ciò che questo giovane custodiva gelosamente in sé.
Vesuvio dormiva un sonno apparente e nel cuore, nella parte più nascosta, racchiudeva gelosamente, come in uno scrigno, sentimenti dolcissimi e tenerissimi che premevano per farsi conoscere.
Un giorno, in una mattinata calma e limpida, vide una Ninfa incantevole, bella come un gioiello rarissimo e purissimo che s’impossessò del suo cuore e non gli permise più di ragionare. Sembrava quasi impazzito e la sua mente fu occupata da un unico ed ossessivo pensiero: conoscere la fanciulla! Finalmente raccolse tutto il coraggio e si decise a rivolgerle la parola:
- Non fuire, ferma!
Che gusto haie tu vedereme sperire.
Pe cose negare non me puoie?
Voglio schitto vedere s’uocchie tuoie,
chiss’uocchie belle, s’uocchie de farcone,
C’hanno chest’arma mia posta ‘mpresone.-
Dopo siffatta preghiera, la Ninfa si addolcì ed incontrò il giovane che riuscì a conquistarla con la sua corte. I due trascorrevano insieme intere giornate e il loro sentimento cresceva attimo dopo attimo.
Tutto procedeva per il meglio ma, quando sembrava oramai che il sogno d’amore potesse essere suggellato da una giusta unione, Vesuvio e la sua amata furono contrastati dalle famiglie.
In special modo i Crapa, ricchi e nobili, si accanirono contro il giovane, ritenendolo non all’altezza della figlia. Si adoperarono per separarli e costrinsero la giovanetta ad alloggiare presso parenti che abitavano al Capo della Minerva.
Non fu una buona risoluzione!
La lontananza, infatti, ebbe l’effetto contrario: l’amore si rafforzò, ma con esso anche la tristezza. La povera fanciulla era così disperata che niente e nessuno riusciva a lenire il dolore.
Invogliata, anzi costretta dai parenti, un giorno uscì in barca. Remava senza alcuna voglia…. Non provava gioia neanche alla vista del panorama che si stendeva dinanzi ai suoi occhi. L’azzurro del mare e del cielo, il dolce planare dei gabbiani, lo stesso calore del sole non erano così forti da farle dimenticare, nemmeno per un solo istante, il suo immenso dispiacere. Ogni momento vissuto in quel paradiso naturale fu occupato dal ricordo del bene amato, dalla sua bellezza e dall’amore negato.
Convinta che ormai non avrebbe più rivisto Vesuvio, si gettò in acqua e, lasciandosi avvolgere dall’abbraccio caldo del mare, scomparve nelle sue profondità, portando negli occhi e nel cuore l’immagine del suo innamorato.
L’amore, però, con la sua forza può rendere meno crudele la realtà!
Le divinità marine, mosse a pietà per il triste destino di questa fanciulla, pensarono di ridarle la vita in un modo singolare.
In una calda giornata in cui il sole risplendeva fulgido nel cielo e il mare era calmo, fecero sorgere un’isola bella e leggiadra che ricordava la fanciulla amorevolmente accolta nel loro regno: si chiamava Capri. Il tempo trascorse e la notizia della morte della dolce fanciulla arrivò a Vesuvio che impazzì dal dolore. In preda alla disperazione più folle, incominciò a gettare fuori enormi sospiri di fuoco, trasformandosi lentamente in una montagna chiamata poi Somma.
Ancora oggi, dall’alto della sua possanza, enorme e minaccioso, si guarda intorno e i suoi occhi si colmano di dolcezza solo quando guarda la sua amata Capri.
Allora si distende nel mare quasi a racchiudere l’isola in un abbraccio protettivo.
Vi sono, però, momenti in cui il dolore diventa insopportabile, la furia lo prevarica, ricomincia a sospirare tumultuosamente e… fuoco, fiamme, cenere, lapilli gli fuoriescono dalla bocca. E’ proprio durante queste collere spaventose che ci si pente di non avergli concesso ciò che tanto desiderava.
Questa è la storia del Vesuvio scaturita dalla fantasia della gente, ma ve ne sono ancora tante e tante dal momento che vari autori italiani e non, si sono interessati al vulcano.
Eccone alcune tra le più indicative.
Nelle Egloghe piscatorie di Bernardino Rota si narra di Leucopetra, ninfa marina, amata ardentemente da due giovani, Vesevo e Sebeto, che la inseguirono mentre raccoglieva conchiglie sulla riva. Per scappare e non perdere così la purezza, ella si gettò in mare trasformandosi in pietra. Anche i due giovani si tramutarono: Vesevo da pietra diventò una montagna, scrigno di fuoco che poi si riversò in mare, verso la ninfa amata; Sebeto pianse tanto da consumarsi e diede vita a un fiumicello, anch’esso diretto a mare.
In tal modo viene descritto il sentimento amoroso di Sebeto:
Comme sòrece ‘ncappa a lo mastillo.
Ed avea cchiù golìo a lato
Ca golìo de cerase ha no nennillo
non ce fo taglio: e pe chessa ignara
tanto chiagnìo che deventai sciomara.
Lacrime e vino
Sulle pendici del Vesuvio cresce un tipo di vite da cui si ricava un vino famoso: il Lacrima Christi.
La leggenda narra che, girando il mondo, Gesù arrivò in Campania. Salito sul vulcano, ammirato il panorama, esclamò: - E’ un Paradiso in terra; ma gli uomini, che birboni! - Il pensiero della cattiveria degli uomini lo fece piangere e le lacrime caddero al suolo, bagnandolo. In quel punto alcune donne piantarono magliuoli che attecchirono. Un tedesco amante di Bacco, giunto in queste terre ed assaggiato il vino, esclamò: - Buon Dio, perché non hai pianto in Allemagna? Eppure, anche lì vi erano abbastanza birboni!-
Un’altra leggenda spiega diversamente la nascita del vino.
Un eremita viveva sul Vesuvio, ristorando i vari pellegrini con un vino che egli stesso preparava. Un giorno Satana lo tentò, ubriacandolo con il suo stesso vino e allettandolo con indicibili visioni. Il povero eremita stava quasi per cedere, quando il buon Dio scatenò un uragano così tremendo da mettere in fuga Satana.
La forte pioggia annacquò il vino; ma quando l’eremita, passati il temporale e lo smarrimento, l’assaggiò, lo trovò trasformato in un nettare squisito. Capì di essere stato causa di un intervento divino col suo comportamento debole e vide in quella pioggia il pianto del Signore che aveva temuto per la sua perdizione.
L’indignazione del Vesuvio
Un monaco si recò un giorno sul Vesuvio, ad invocare l’aiuto delle potenze magiche per l’esaudimento di un desiderio inconfessabile. Il monte, invece, si sdegnò e vomitò un cavallo dagli occhi di fuoco e con la criniera intrecciata di serpi. Il diabolico animale inseguì il monaco e, raggiuntolo, battè con lo zoccolo il terreno che si aprì inghiottendo il peccatore. Quei luoghi ancora oggi si chiamano Atrio del Cavallo e Monaco.
La magia del vulcano
Un giorno si presentò al Vesuvio un uomo di nome Mauro che aveva il viso nero come la notte. Egli chiese al vulcano di poter essere trasformato in un uomo normale La sua richiesta fu accettata ed esaudita. All’improvviso comparve un Angelo che lo portò nell’area del cratere e, soffiandogli sul viso, gli fece la pelle bianca come la neve. Così i due crateri furono chiamati Angelo e Mauro.
Diverse sono le storie seguite alle varie eruzioni che hanno caratterizzato l’attività del Vesuvio.
Per l’eruzione famosa del 1631 si disse che i napoletani avevano attribuito la calamità all’arrivo a Napoli di un - mostruoso elefante che, a cagion di guadagno, vi avevano da lontani paesi portato certi ottomani, i quali un tanto a testa si facevano dare per mostrarlo altrui -. Altro presagio era stato visto nel fatto che due contadini avevano avuto un figlio che a quattordici mesi, pur non avendo ancora i denti, aveva il corpo di un gigante e veniva mostrato a pagamento. Si disse anche che la Madonna di S. Maria di Costantinopoli aveva pianto, mentre la statua dell’Immacolata Concezione uscita in processione da S. Maria La Nova, era caduta a terra, fracassandosi.
Contro le minacce delle potenze infernali, i Napoletani invocavano i loro protettori e San Gennaro, non poche volte, ha fermato la lava sul limitare della città. Il 15 giugno 1794 si registrò un ennesimo miracolo: Napoli, atterrita, pianse e pregò Dio che, grazie all’intercessione di San Gennaro, fece crepare la montagna e cessare i terremoti che da giorni scuotevano le case.
Un anonimo cantò: - Della Torre io vi canto il gran danno e l’aspro pianto -.
Torre del Greco era ormai bruciata e il pericolo incombeva su Napoli: - Il Mercato col Lavinaro ricorsero a San Gennaro. Vedendo il foco in tal ruina corse ancora la Marina...- Tutti corsero verso il Duomo per arginare la minaccia dei demoni: - Le zitelle scapigliate, con parenti accompagnate, con le croci e le corone ogni ceto di persone -.
Presagio fausto è la liquefazione del sangue del Santo da cui il popolo deduce che non vi saranno, durante i mesi futuri, né eruzione né terremoti.
I fenomeni vulcanici furono messi anche in relazione con la morte di grandi peccatori come Giovanni III, duca di Napoli, avvenuta nel 968 e raccontata da Piero Damiano, dottore della Chiesa. In una sua Cronica, egli racconta che un uomo pio, mentre era intento nella lettura dei salmi, vide alcuni negri trasportare del fieno. Avendo chiesto loro chi fossero, essi risposero di essere dei demoni che portavano il fieno per alimentare il fuoco occorrente per bruciare Giovanni III che, secondo loro, stava per morire. All’istante egli andò a riferire l’accaduto a Giovanni che lo rassicurò, affermando che, per espiare le sue colpe avrebbe vestito l’abito talare, dopo l’incontro con Ottone II. L’incontro non ci fu perché, trascorsi alcuni giorni, Giovanni morì e sul Vesuvio comparvero le fiamme.
Un calzolaio di pessimo gusto
Racconta il Gregorovius, in Passeggiate per l’Italia, che, nel 1822, un calzolaio di Sorrento salì al Vesuvio e scese nel cratere svuotato da un’eruzione di due anni prima, con l’intenzione non soltanto di guardare la voragine, ma anche di commettere un atto d’ingiuria all’orribile titano. Mentre commetteva l’ingiuria gli venne un capogiro e svenne. Trattenuto per fortuna da una sporgenza, con un braccio e una gamba rotti rimase per due giorni sospeso sull’orlo del cratere, finché i suoi lamenti furono uditi da due escursionisti che lo trassero in salvo.
La fattucchiera del Vesuvio
Si racconta che, dopo un’eruzione che aveva riempito di lava il fosso grande, in una notte di novembre, si udì un urlo straziante che svegliò tutti gli abitanti della zona. Esso si ripetè anche nelle notti seguenti, incutendo terrore tra le genti del posto. I contadini, armati di roncole e fucili, all’alba partirono alla ricerca dell’origine dello spaventoso grido. Perlustrarono il terreno palmo per palmo, ma non trovarono niente. Non sapendo darsi una spiegazione, tutti avevano paura. Fu così che, mentre si interrogavano sul da farsi, qualcuno suggerì di rivolgersi alla vecchia ‘e Mattavona, una fattucchiera che abitava alle falde del Vesuvio. I contadini accettarono il consiglio e in processione andarono dalla megera. La vecchia, dopo averli ascoltati, si recò sul posto e pronunciò alcune strane formule magiche. Da allora l’urlo scomparve e gli abitanti ripresero a dormire di notte.
Questa è una storia probabilmente raccontata dopo l’eruzione del 1858 che provocò una grande fuoriuscita di lava che riempì il Fosso Grande, trasformando in strada percorribile quello che prima era un pericoloso burrone.
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