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I  NOSTRI  RACCONTI

Attività di lettura

Dal diario di Henrick Donovan

Il Portale degli Inferi

Racconto di Elia Ottonello

donovanIl mio nome è Henrick J. Donovan e, tecnicamente, in questo momento sono morto. Una storia che inizia in questo modo potrebbe indurre molti a chiedersi se valga la pena leggerla, perciò proporrò un breve prologo per aiutare la vostra comprensione.
La mia vicenda comincia in un capoluogo di regione del nord Italia, Genova; al tempo in cui io e la mia famiglia ci trasferimmo qui, avevo poco più di undici anni e avevo già iniziato a prendere in mano i primi libri di mia spontanea volontà. Fu in quel periodo che mi innamorai perdutamente della mitologia greca: i mostri, gli eroi, gli dei mi affascinavano. Tuttavia due miti si imposero alla mia mente, quelli di Orfeo ed Ercole, ed entrambi per la stessa ragione: i loro protagonisti erano riusciti ad andare negli Inferi. L’ipotesi di poter entrare prematuramente nel mondo dei morti, unita alla mia passione per i miti, diede modo alla mia curiosità morbosa di scatenarsi in tutta la sua forza, e così iniziai a fare ricerche su qualsiasi altro culto includesse un’entrata nell’aldilà. Contrariamente alle mie aspettative, non ve ne erano molti e le culture che ne trattavano erano solamente quella nordica e quella azteca, a me ignote fino al momento della ricerca. A quel punto, deluso dalle scarse testimonianze trovate, da bravo undicenne annoiato, abbandonai tutto per dedicarmi a qualcosa di più divertente, tipo la Play Station. Successivamente, all’età di quattordici anni, ritrovai delle vecchie scartoffie nella mia cesta dei giochi, che si rivelarono essere i documenti che avevo stampato da piccolo, e, tra i ricordi recenti e quelli passati, ripresi i miei studi. Questa volta, da adolescente, detti un approccio differente alle indagini e trovai, digitando su You-Tube “Portale degli Inferi”, degli inquietanti filmati di enormi portali in cui si udivano gemere e gridare voci chiaramente umane. Facendo un incrocio con i risultati recenti e quelli passati, mi accorsi che i luoghi in cui erano stati girati i video coincidevano con quelli che avevo trovato nei miti. Dopo una simile scoperta, un altro filmato mi ritornò alla mente, una clip che mostrava un portale di Genova da cui fuoriuscivano le medesime urla degli altri filmati.
Le mie ricerche sono andate avanti fino a ieri, 31 Dicembre 2015, quando mi sono accorto che l’entrata degli Inferi si sposta annualmente e adesso è qui, a Genova. Ho dovuto disdire la serata organizzata con i miei amici per poter verificare la mia teoria; ebbene sì, io la notte di Capodanno l’ho passata davanti ad una porta. Il momento a cavallo tra vecchio e nuovo anno è perfetto per aprire la soglia, il vero mistero era come farlo. Il portale si è presentato a me in uno stato di abbandono davvero pietoso; la porta, completamente coperta di ruggine, era stata usata dai graffitari come tela in modo assolutamente orribile, il rosso genovese dei muri sgretolati era molto evidente e, insieme a tutto il resto, sottolineava l’incuria di quella che un tempo era stata un’opera d’arte. Ad un certo punto ho notato una piccola chiave vicino all’angolo destro del portale, per via di un bagliore del raggio di Luna piena che la illuminava interamente, e l’ho messa nella toppa, dando poi tre giri verso sinistra. In quel preciso istante la terra ha iniziato a tremare, la piattabanda sopra i passaggi laterali e i muri di tamponamento hanno iniziato a creparsi, mentre pezzi di pietra si staccavano dalle mura. Il colpo di grazia me lo ha dato l’edicoletta quando è esplosa in mille pezzi con un boato tremendo, facendomi cadere per terra; il portale rivelava finalmente la sua vera natura. Davanti a me si ergeva un enorme uscio di ossidiana, nero come solo il più recondito angolo dell’abisso del Tartaro può essere. Il varco era aperto davanti a me come se mi invitasse o mi sfidasse ad entrare; non ho esitato e, dopo essermi tirato su, ho varcato la soglia. A questo punto non mi resta che chiedermi se questa sia la mia fine o solo l’inizio.

 

Attività di lettura

Un pacchetto rosso fiammante

Racconto di Laura Lerza

Sono ormai anziana e mai avrei pensato di voler ripercorrere la strada che ero solita fare per andare al liceo, eppure ieri ho preso l'autobus e l'ho fatto. Al ritorno ho deciso di imboccare un'altra viottola per ritrovare il portale che io e la mia classe avevamo analizzato e che eravamo riusciti a far restaurare, eliminando così graffiti e ruggine di cui prima era coperto. Dopo aver percorso in discesa buona parte della mattonata sulla quale si affaccia il portale, l'ho scorto. Era esattamente come lo ricordavo, sono stata contenta di non averlo trovato in stato di abbandono. Ogni piccolo particolare che rammentassi era ancora lì, presente nella stessa forma, dalla piattabanda che sovrasta i passaggi laterali all'edicola con l'iscrizione su una lastra di marmo bianco, al basamento di pietra e il muro che lo fiancheggia da entrambi i lati, con il suo bell'intonaco in rosso genovese che tanto avevamo faticato a riportare alla sua originaria condizione. Mentre lo ammiravo commossa, come avessi incontrato un vecchio amico, mi sono accorta che la porta era socchiusa, mi sono avvicinata e, dopo essermi guardata intorno, sono entrata. Al di là era buio, un buio molto più fitto di quando si tengono gli occhi chiusi, sembrava quasi denso. Inaspettatamente un gran numero di candelabri si è acceso, illuminando un sentiero lunghissimo con una fila sconfinata di portali uguali a quello che avevo appena attraversato, contrassegnati da numeri. Sono entrata in quello che mi stava di fronte, il numero quattro. Mi sono ritrovata nella mia vecchia sala, quella della casa in cui vivevo con i miei genitori. Improvvisamente ho visto entrare una bambina di cinque anni con lunghe trecce bionde: ero io e avevo un regalo, impacchettato con della carta rossa fiammante, in mano.  Doveva essere il mio compleanno. Dopo aver aspettato i miei genitori, l'ho aperto e subito mi si è dipinto un sorriso sul volto abbracciando la mia bambola di pezza alta come me. Da quel momento in poi l'ho sempre tenuta con me, nella mia camera, come fosse stata mia sorella. A quel punto i miei genitori mi hanno abbracciata e abbiamo iniziato a pronunciare parole, parole che però non sono riuscita a cogliere e lentamente la scena è sbiadita ed è sfumata.

Attività di lettura

Il portale

Racconto di Paolo Pontremoli

Avevo contato più di trentacinque giorni senza aver visto la luce del sole, quando finalmente si decise a farmi uscire… Mi vennero a prendere tre persone. Nel momento in cui mi aprirono, sentii un brivido lungo la spina dorsale che saliva fino alla base del collo.  Faceva freddo ed io ero solo, in maglietta e senza scarpe, probabilmente avevo la febbre e non riuscivo a mangiare. Ero stato portato in quel luogo in auto, probabilmente un fuoristrada, su una sconnessa salita avevo, infatti, battuto la testa da qualche parte. Ero incappucciato. Per qualche ragione il luogo della mia prigionia non doveva essere scoperto. Dopo avermi fatto uscire, infatti, fui subito colpito alla nuca, non abbastanza in fretta, però, da impedirmi di togliere il copricapo e capire dove mi trovavo. Ero in un giardino, circondato da alte mura, prato verde e piscina, i bordi di marmo. Dietro di me, il luogo della mia prigionia. Una facciata di marmo bianco di Carrara con tre file di colonne ioniche. Sotto a queste, una scala larga quanto la facciata portava in un luogo interrato, in penombra, che, dall’esterno, si poteva solo scorgere. Mi risvegliai il giorno dopo. Erano le undici ed io, da solo, non sapevo cosa fare; sentivo i capelli bagnati, e infatti sanguinavo, niente di grave, ma sanguinavo.. Dopo un breve momento di concitazione,  mi calmo e decido il da farsi.  Individuare il rapitore, riprendermi ciò che mi apparteneva e trovare i miei fratelli. Sapevo che “la casa” era in altura, che era circondata da alte mura e che da Sassello all’abitazione erano circa quarantacinque minuti di macchina. Capii subito di trovarmi a Genova. Si distingueva, infatti, la sagoma del promontorio di Portofino, a Levante, e dei monti ponentini, sulla destra, guardando il mare. C’era Tramontana, il vento da Nord, freddo ma secco. Dovevo trovare un riparo così come cibo e acqua e, essendo stato lasciato sul tetto di una casa deserta del lungo Bisagno, che dopo l’alluvione era irriconoscibile, decido di provare con gli appartamenti degli ultimi piani. Ne trovo subito uno perfetto, a parte la puzza di abbandono, infatti ha l’acqua corrente e persino il gas. Dopo aver saccheggiato quella e le case dei vicini di liofilizzati, decido di mettermi in cerca del laboratorio. Parto dal monte Fasce, passando da Apparizione, ma niente, così come sul Moro. Passo quindi a cercare sui colli più vicini, a cominciare da quelli dell’ex centro genovese. Salendo su per una strada, che credo fosse via Bertani, inizio ad imbattermi nelle prime case non alluvionate; il parcheggio è però scomparso, sepolto sotto cumuli di fango, e Villetta di Negro è ricoperta di una fitta vegetazione che non lascia passare un raggio di sole, nonostante sia autunno e la maggior parte delle foglie sia già a terra, adagiata su un pavimento rossastro, di un colore cupo, spento, quasi come quello del cielo. Cammino in salita e, anziché continuare verso via Acquarone, decido di percorrere Corso Magenta da Ovest verso Est e, malinconicamente, mi dirigo dalla parte del mio vecchio liceo, in piazza Manin, seguendo il percorso del 36. Cerco la focacceria: la sbarra chiusa, scarabocchiata di graffiti e piegata nella parte alta. Al suo fianco, la macelleria è invece aperta: i venti dell’inverno hanno strappato le serrande e rotto la vetrina. C’è ancora un pezzo di carne appeso a un gancio sul soffitto. Il chioschetto del Pub è scoperchiato e la televisione è per terra, con il vetro rotto. Le panchine, da sempre contese tra i colori genoani e quelli doriani, sono abbandonate ai colori chiari e spenti del legno marcio. Gli aceri e gli abeti non ci sono più e la piazza è completamente spoglia. Il fioraio è scomparso, insieme alle scale che portano in via Durazzo. Proseguo verso la scuola. Lo scalone è ancora in piedi. Lo percorro fino ad arrivare al casottino di Robi. Sento un rumore provenire dall’interno e scappo dai parcheggi. Arrivato nel cortile, mi volto. Dentro l'edificio alberga una famiglia di cinghiali. Dovevo aspettarmelo. Il cancello è chiuso e sono costretto a scavalcarlo. Mi trovo in una strada irriconoscibile. Il ponte è in gran parte franato e il civico 18 di via alla Stazione per Casella, il bellissimo palazzo ottocentesco rosso genovese, è crollato su se stesso. Decido di passare dall’altra parte. Arrivato, mi trovo su una sconnessa salita e penso di poter essere vicino al luogo che cercavo. Dopo pochi minuti di cammino m’imbatto in una cinta muraria. E’ alta e per vedere cosa si trovi all’interno devo arrampicarmi su una casa di fronte. Salgo le scale e, giunto al secondo piano, posso guardare dalla finestra, per trovare una villa simile alla mia. Scruto le vetrate, ma non c’è movimento. Volgo lo sguardo più a monte e la vedo. L’ho trovata. È poco più in là. Mi metto in cammino e rapidamente la raggiungo. Sono davanti a mura alte due metri e mezzo, invalicabili. Le percorro e m’imbatto in un portale. Avvolto dal mistero, in pietra; coperta dalla vegetazione, un'edicola si nasconde tra i rampicanti. Non posso andare oltre, il passaggio è infatti ostruito da un tamponamento. La  ruggine, una tavolozza per i graffitari, lascia immaginare da quanto il portale sia stato abbandonato. Devo attraversarlo o no? Non conosco il mio nemico e non so neanche se quello che cerco sia dietro quelle mura, ma, in ogni caso, non posso rischiare di perderlo.

Attività di lettura

REY MANAJ
Un mago con la passione per l’arte

Racconto di Matteo Sanfilippo


magoOgni giorno, nel tragitto che percorro per andare a scuola, vedo un portale, ormai abbandonato, che mi ha sempre incuriosito. Così, qualche tempo fa, sono andato da mio nonno, che, quand’era giovane, viveva in quei paraggi, e gli ho chiesto se sapesse quando era stato costruito e che cosa ci fosse dietro. Allora lui, a sua volta, mi ha domandato se avessi mai sentito parlare di un certo 'Rey Manaj' e, non avendo io la minima idea di chi potesse essere, ha iniziato a raccontare. Mi ha detto che Rey era un mago, ma era morto molto giovane. Quest’uomo, oltre ad essere un mago, era molto ricco poiché figlio di un importante imprenditore arabo. Così un giorno aveva deciso di farsi costruire uno splendido palazzo per viverci insieme alla sua famiglia al completo. Lo aveva voluto in Italia perché, secondo lui, era un paese perfetto per cultura, storia e paesaggi. Aveva scelto Genova come città perché voleva essere in un grande centro vicino al mare e aveva ritenuto Genova il migliore. Per costruire la sua reggia, aveva deciso di fare qualcosa di sorprendente: usando i suoi poteri magici, aveva riportato in vita i protagonisti dell’arte medievale e rinascimentale. Aveva pensato ad un “team” per l'ideazione e la costruzione di ogni cosa, in cui, nonostante tutti avessero un compito preciso, a volte, su uno stesso lavoro, operassero più artisti perché, messi in competizione, avrebbero prodotto opere sempre più belle. Su tutti, per l'architettura in generale, spiccava Brunelleschi. A lui era stato affidato l’incarico di direttore dei lavori. Si era così divertito a realizzare la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze che propose di costruirne addirittura cinque per il palazzo di Rey, ma, per limiti di tempo, riuscì a completarne solo una. Progettò un palazzo di cinque piani che arrivasse ad un’altezza di 200 metri, contando la cupola. Progettò anche quattro entrate, una delle quali è proprio il portale che è rimasto oggi. Il giardino era anch’esso molto grande, quasi un parco, ed era delimitato da mura che collegavano le quattro porte. Brunelleschi decise che ogni entrata dovesse essere collegata al palazzo tramite un percorso costruito con pietra rialzata di qualche centimetro dal suolo, in modo tale che chiunque lo percorresse, non corresse il rischio di calpestare erbe e fiori. All’interno del giardino, pensò anche di porre una fontana che desse un po’ di vivacità all’ambiente. Poi si mise a studiare i portali, per i quali optò per passaggi laterali sovrastati da piattabande che risultavano una novità per lui. Voleva comunque dei portali molto semplici, ma un altro artista, Donatello, suggerì di porre un’edicola sopra la cornice modanata e quest’idea fu ben vista da Rey, che decise di accoglierla. Con quest’idea Donatello vinse il concorso che lo vedeva gareggiare contro Nicola e Giovanni Pisano per la scultura. Donatello propose quindi di mettere due leoni di marmo bianco a fianco a tutte le porte del palazzo e, in ogni angolo della casa, una statua. Voleva che ogni locale contenesse qualcosa di suo, ma Rey gli disse che poteva mettere i due leoni solo alle porte d’entrata della villa e gli concesse tante statue quanti i membri della sua famiglia. Inoltre Rey riportò in vita Giotto, Pisanello, Petrarca e Dante. Per gli affreschi mise in concorso i primi due, ma, vedendo il loro affiatamento, decise di farli lavorare insieme. Ogni parete della casa, infatti, doveva essere affrescata oppure rivestita di scritte significative, per questo motivo erano stati appunto chiamati Dante e Petrarca. Dante optò per la tecnica del graffito e chiese aiuto a Giotto, poiché voleva assolutamente realizzare un buon lavoro. Petrarca si limitò a scrivere con l’inchiostro nero sui muri. Mio nonno mi ha raccontato che ogni giorno passava davanti al portale per vedere i progressi e mi ha detto che era un mistero dove fossero gli altri tre portali poiché nessuno li aveva mai visti. Ha sostenuto anche che probabilmente c’era stata un’indecisione: lasciare i portali in mattone rosso genovese o coprirli d’intonaco? Per lungo tempo rimasero in mattone, ma poi vennero ricoperti. Dopo questa sua lunga storia gli ho domandato come facesse a sapere tutte le cose che mi aveva appena raccontato e mi ha risposto che un giorno, mentre cercava di sbirciare attraverso la porta, venne notato dal signor Manaj, che decise di farlo entrare e gli offrì un caffè. Durante il tempo che passarono insieme Rey gli spiegò il progetto per offrirgli l’opportunità di diventare un grande architetto. Gli impose però di non parlarne con nessuno. Rey aggiunse poi che quei personaggi illustri potevano restare in vita un solo anno, quindi sarebbero dovuti tornare là da dove erano venuti. Effettivamente, dopo un anno la costruzione finì, ma un solo mese più tardi Rey morì a causa della rivolta degli operai che avevano lavorato troppo durante quel periodo e ritenevano di essere stati pagati troppo poco. Con la sua morte, tutto venne abbandonato poiché i familiari si rifiutarono di abitare in quella reggia. Ora, dopo tanti atti vandalici subiti e tanti anni passati, l’unica cosa che si può vedere è un portale pieno di ruggine. Dopo questo racconto, ogni volta che passo lì davanti, controllo se qualche mago come il signor Manaj abbia provato a ricostruire tutto. Purtroppo non è ancora accaduto.

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