UN
SUFFISSO PER UCCELLI
Quando ero a Tokyo, qualche anno fa, decisi
di mettermi a studiare il giapponese. Il mio maestro, che si chiamava, Watanabe-san, veniva da me tutte le mattine in motocicletta. Indossava un
feltro grigio rialzato sulla fronte, un colletto duro con la cravatta a
farfalla, a righe, un panciotto con un bordino bianco, una corta giacca nera
e mutandoni di flanella. I pantaloni del vestito se li portava arrotolati e
legati al portabagagli della motocicletta, per non infangarli percorrendo le
strade non asfaltate di Tokyo.
Puntualmente, alle otto di ogni mattina, sentivo davanti alla casa un
put-putting, e appena la motocicletta di Watanabe-san aveva esalato gli
ultimi respiri, scendevo ad aprirgli. Entrava nel vestibolo inchinandosi e
respirando rumorosamente attraverso i denti. Che lui venisse a quell’ora era
stata una mia idea. Dovevo andare a lavorare alle nove e pensavo che quel
sistema mi avrebbe consentito di risparmiare un po’ di tempo. Comunicandogli
che avrei fatto colazione mentre lui mi insegnava il giapponese, non mi
passò per la testa che avrebbe deciso di fare colazione con me. Pensavo che
l’avrebbe fatta a casa sua, prima di salire in motocicletta, e siccome io
non prendevo altro che spremuta di arancia e caffè, giudicai che non ci
sarebbe stato niente di male se li avessi presi mentre lui mi insegnava la
lingua del paese. Watanabe-san non trovò niente da ridire, ma dopo le prime
due mattine si portò da casa la colazione, in una scatola di lacca rossa,
che egli legava al portabagagli insieme ai pantaloni. Era una tipica
colazione giapponese, con scodelle e piatti
laccati di nero, complicatamente disposti e racchiusi dentro la scatola di
lacca rossa. Piatti e scodelle contenenti pezzettini di pesce in salamoia,
rape conservate, crema di fagioli, frittura fredda di bue, tiepida zuppa di
malva, e riso stufato, venivano stesi sul mio tavolo: Watanabe-san
cominciava a mangiare con i bastoncini che portava nella tasca superiore del
panciotto. “Questa”, diceva, sollevando un quadratino di radice in conserva,
“questa è daikon. In giapponese si chiama daikon. Ripeta insieme a me,
daikon”.
“Daikon” dicevo io.
Watanabe-san insegnava inglese in un liceo
della città; era ambizioso, piccolo, rotondeggiante e pieno di energia.
Aveva denti in fuori, così lunghi e disuguali da dare l’impressione che,
volendo, avrebbe potuto benissimo incrociarli, come si fa con le dita delle
mani. Quando parlava animatamente, era come se vi agitasse una mano in
faccia. Il suo ghigno era circolare, a causa di quei denti, ed era, per la
stessa ragione, incessante. Molti dei Giapponesi che incontrai avevano un
riso nervoso, ma il sogghigno di Watanabe-san era un fatto puramente fisico.
(…)
A mano a mano che le lezioni procedevano,
l’osservazione più frequente di Watanabe-san cominciò ad essere “Sono molto
spiacente: questo è un suffisso sbagliato. E’ un suffisso per uccelli” (…)
Stava succedendo che Watanabe-san aveva cercato di insegnarmi dodici
suffissi per ogni verbo che noi discutevamo e i soli suffissi che io
sembravo capace di ricordare erano quelli che si sarebbero dovuti usare
quando si parlava di uccelli. Forse a questo punto dovrei spiegarmi un po’
meglio. L' idea è pressapoco questa: in giapponese, quando si dice “andare”
riferito o diretto a un servo, si usa un certo suffisso. Quando il verbo
“andare” è riferito o diretto a tua padre, si usa un altro suffisso: inoltre
si usa un suffisso decisamente diverso quando ci si riferisce o si parla
della propria madre, e ancora, un altro quando ci si riferisce o si parla
degli uccelli. Ci sono poi suffissi diversi per cavalli, soldati, pesci,
poliziotti, cani, alligatori, autisti, ecc. Dodici suffissi semplici (così
almeno dicono loro!) e dozzine di suffissi complessi per ogni verbo
esistente nella lingua. A quel tempo i miei non erano in Giappone, e questo
semplificava già molto le cose, ma per le prime due settimane o giù di lì, e
per qualche ragione oscura che non voglio neanche ricercare, sembrava che
riuscissi a dimenticare tutti i suffissi di tutti i verbi che imparavo, ad
eccezione di quelli per gli uccelli, cosicché qualsiasi cosa io dicessi in
giapponese, mi trovavo a parlare di uccelli. Per esempio, imparai (o
credetti di imparare) a dire ad un conducente di taxi: “Prego, girate
all’angolo e fermate davanti alla piccola casa di pietra sulla destra” Ciò
che invece dissi, mentre ero convinto di dire quanto su riportato, fu,
secondo la susseguente lezione di Watanabe-san “Uccelli, prego, girate
all’angolo e smettete di volare di fronte alla piccola voliera di pietra
sulla destra”. (….)
Comperai, dietro suo suggerimento, un grande e
vasto dizionario inglese-giapponese che servì a farmi insabbiare ancor di
più, quando non avevo con me Watanabe-san a cavarmi d’impiccio. (…)