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DIVERSITA'

NEGATA
a cura di Gabriella Rapella ed Alessandra Bucchi

 

Cercavo di non vedere e di non sentire.

 

Era il 1938 e avevo allora otto anni, quando mio papà mi disse che non avrei più potuto andare a scuola perché io ero una bambina ebrea e come tale lo stato non mi voleva più nelle sue scuole accanto agli altri bambini non ebrei. Fu uno choc, un pugno nello stomaco.
Una sensazione, innaturale per una bambina di pochi anni, mi accompagnò per lungo tempo: ero stata respinta dal mondo che mi circondava e che avevo sempre creduto amico. Per cinque anni fu una progressione continua di limitazioni man mano che leggi razziali venivano applicate e io leggevo sui visi dei miei cari l'umiliazione e anche la tristezza profonda di essere considerati cittadini di serie B dopo essere stati italiani onesti per secoli e anche fedeli ufficiali nella prima guerra mondiale.
Il 1943 vide me e mio papà prima fuggiaschi, poi arrestati e imprigionati.
Fui sola, a tredici anni, nelle carceri di Varese e di Como, poi a San Vittore con mio papà.
Fui con lui su quel treno che deportò noi e altri 650 disgraziati fino ad Auschwitz. Fu un'esperienza eccezionale, fu l'ultima settimana delle nostre vite con i nostri cari (non lo sapevamo, naturalmente), ma c'era in noi la consapevolezza grave di vivere un momento estremo, passati come bestie in un carro merci.
Quel viaggio fu segnato da tre momenti: prima si sentì soprattutto piangere disperatamente, poi, in una seconda fase, i più fortunati pregarono, infine ci fu una terza fase, per me quella più essenziale, la fase del silenzio, un silenzio solenne e importante: era la massima comunicazione fra persone che si amavano tanto. Poi fu l'arrivo e la separazione atroce.
Un gruppo di SS decideva della vita e della morte di ognuno. Da quel momento fui sola: fino a quell'istante, in cui lasciai per sempre la mano di mio papà, la mia identità era stata quella di figlia; capivo confusamente nella disperata solitudine che seguì, che dovevo costruirmi una nuova identità.
Ero sola, rapata, infreddolita, affamata, ero sola! Non capivo la lingua degli aguzzini e non capivo la maggior parte delle lingue parlate dalle altre prigioniere.
Non avevo una spalla su cui piangere, tutto intorno a me era orrore, mi era impossibile capire dove ero capitata e perché, ero sola.
Cercai allora di rifugiarmi in un mondo fantastico, mi dicevo che non ero io quella che era lì, cercavo di non vedere e di non sentire.

 

Liliana Segre in: Vico Giuseppe, Santerini Milena (a cura), Educare dopo Auschwitz, Milano, Vita e Pensiero, 1995

 

 

 

deportazione

 

APPARATO DIDATTICO

1 – Ricostruisci le tappe principali della vita della protagonista dal 1938

2 – Che cosa erano le leggi razziali?

3 – L’intestazione del decreto promulgato in Italia è la seguente

REGIO DECRETO-LEGGE 5 settembre 1938 - XVI, n. 1390

Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista

VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER LA VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D'ITALIA IMPERATORE D'ETIOPIA.

a – Chi ha promulgato il decreto?

b - Che cosa significa l’espressione “per grazia di Dio”?

c - A chi ci si riferisce con l’espressione “Imperatore d’Etiopia”? Come mai?

4 – Perché gli adulti che circondano la protagonista consideravano ingiuste le leggi razziali?

5 – Durante il viaggio verso Auschwitz come si comportavano i deportati?

6 – Cosa prova la protagonista quando fu separata dal padre?

7 – Perché si rifugia in un mondo fantastico?

8 - Primo Levi, nella poesia “Se questo è un uomo”, parlando della condizione dei deportati nei campi di concentramento, dice(….) Che muore per un sì o per un no (…)

Anche nel testo che hai letto si fa riferimento alla precarietà della situazione dei deportati la cui sorte è in mano ad altri. Riporta l’espressione esatta.

 

 

Libertà

Noi Zingari abbiamo una sola religione: la libertà.
In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, alla scienza ed alla gloria.
Viviamo ogni giorno come se fosse l'ultimo.
Quando si muore si lascia tutto: un miserabile carrozzone come un grande impero.
E noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati Zingari che re.
Non pensiamo alla morte. Non la temiamo, ecco tutto.
Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose
che la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare:
una mattina di sole, un bagno nella sorgente,
lo sguardo di qualcuno che ci ama.
E' difficile capire queste cose, lo so. Zingari si nasce.
Ci piace camminare sotto le stelle.
Si raccontano strane cose sugli Zingari.
Si dice che leggono l'avvenire nelle stelle
e che possiedono il filtro dell'amore.
La gente non crede alle cose che non sa spiegarsi.
Noi invece non cerchiamo di spiegarci le cose in cui crediamo.
La nostra è una vita semplice, primitiva.
Ci basta avere per tetto il cielo,
un fuoco per scaldarci
e le nostre canzoni, quando siamo tristi.

Spatzo (Vittorio Mayer Pasquale) - poeta sinti

escher

 

APPARATO DIDATTICO

1 – Cerca sul vocabolario la parola “zingaro” e riporta la definizione

2 – In che cosa credono gli zingari?

3 – Gli zingari, per essere liberi, a che cosa devono rinunciare?

4 – Perché al momento della morte, secondo il poeta, è meglio essere stati zingari?

5 – Perché gli zingari non temono la morte?

6 – Qual è il segreto che rende felice gli zingari?

7 – Con quali parole il poeta spiega che la vita degli zingari è semplice?

8 – Secondo il poeta come sono considerati gli zingari dagli altri?

9 – Tra le cose che gli zingari apprezzano quali apprezzi anche tu? Perché?

10 – Rileggi la definizione del dizionario: quale aspetto della vita degli zingari il poeta ha voluto sottolineare?

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