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A metà fra il romanzo memoriale e il documento storico, Un anno sull’altipiano di Lussu è una testimonianza concreta, precisa e toccante della vita di trincea durante la Grande Guerra. Sull’altopiano di Asiago, a poche decine di metri di distanza, Italiani e Austriaci si fronteggiano in un conflitto tanto inconcludente quanto logorante, fatto di resistenza e di “assalti” improvvisi e improvvisati, che spesso rispondono più alle ambizioni e ai capricci dei superiori che non a un’effettiva logica di strategia militare. Abituati a operazioni belliche condotte a tavolino o studiate sui libri, i comandanti italiani si rivelano del tutto impreparati sia sotto il profilo tattico, sia sotto quello umano: pavidi o megalomani, maniaci o esaltati, essi non sanno rapportarsi alle truppe e propongono quasi sempre in modo sconsiderato azioni suicide o comunque fallimentari, anche con l’unico scopo di soddisfare qualche velleità personale. E i soldati combattono e muoiono senza neppure sapere il perché, trovando solo nella borraccia del cognac – superalcolico distribuito in abbondanza dallo stato per obnubilare le menti – la forza automatica per continuare. Inizialmente interventista convinto, Lussu partecipa alla guerra in prima linea come ufficiale, ma il contatto diretto con la morte, la presa di coscienza della precarietà del vivere e la consapevolezza dell’irrazionalità della guerra contribuiscono ben presto a modificare le sue posizioni. La narrazione è un atto di accusa contro uno stato che manda a morire i suoi giovani schierando un esercito male armato, male equipaggiato e condotto da incompetenti e, contemporaneamente, è la denuncia del fatto che il nemico, osservato da vicino, non è altro che un uomo, con gli stessi nostri problemi, ma con una divisa diversa. Scritto in uno stile asciutto, semplice ed essenziale, il romanzo presenta una grande varietà di toni, che vanno dal grottesco (si pensi al memorabile ritratto del generale Leone, pervaso dal delirio di onnipotenza) al lirico-sentimentale (si veda invece la morte straziante del tenente Avellini, che porta con sé il sogno ancora acerbo dell’amore di una donna).

(Paola Lerza)

 

                                                      

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