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SAGGISTICA RSTU

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Io e Scilla abbiamo qualcosa in comune: siamo nate nello stesso anno, a soli due mesi l’una dall’altra, entrambe nell’Italia del nord-est, io a Treviso, lei nella confinante Pordenone. Se cito questi dati anagrafici non è a caso… a volte la vita invece lo è; il caso, il destino, chiamatelo come volete, ha voluto che io sia e viva in una determinata maniera, molto diversa da quella di Scilla. Ma proprio la nostra vicinanza geografica e anagrafica mi ha fatto molto riflettere: avrei potuto essere io al posto di Scilla. Scilla era ancora una bimba in fasce quando le è stata diagnosticata una lesione cerebrale, accompagnata da una forma di autismo e da disprassia (difficoltà a coordinare i movimenti del corpo). Tuttavia Scilla non è nata cerebrolesa; sembra infatti che a causare i suoi problemi sia stata un’encefalite senza febbre provocata da un vaccino; diagnosi, questa, mai stata scritta, ma formulata in Svizzera (tra l’altro, sembra che proprio nel 1975, anno in cui a Scilla sono stati somministrati i vaccini, sia circolata in Italia una partita di trivalente avariata… ma queste cose non bisogna dirle a voce troppo alta, lo Stato italiano non riconosce i danni da vaccini!). Nella prima metà del libro, Ludovica Cantarutti, madre di Scilla e giornalista, narra la storia della figlia, le impensabili difficoltà quotidiane, pratiche e non solo, che solo il genitore di un figlio affetto da handicap può conoscere e capire: le diagnosi senza speranze, la ginnastica quotidiana da dover somministrare a Scilla per ottenere qualsiasi piccolo risultato, come stare seduta o infilarsi il cappotto, il rapporto con una scuola dell’obbligo che non ha saputo né aiutare né tanto meno accettare Scilla. All’età di ventidue anni, per puro caso, si è scoperto che Scilla sapeva leggere e scrivere, ma che non era mai riuscita a comunicarlo, e da quel momento la sua vita cambia; Scilla esce dal suo silenzio e inizia a comunicare, fino a compiere l’impresa di scrivere la sua storia, che occupa la seconda parte di questo libro. Grazie alla scrittura Scilla ha potuto comunicare il suo disagio, la sua solitudine, la sua volontà di testimoniare la sua esperienza per aiutare persone che vivono nelle sue condizioni, ha potuto insomma comunicare il suo… essere! La ragazzina che fino a qualche anno fa la scuola ha giudicato irrecuperabile, inidonea agli esami di terza media, oggi, attraverso questa incredibile testimonianza, grida al mondo, pur senza parlare, senza rancore, senza manie di protagonismo tanto moderne al giorno d’oggi, il suo essere viva, essere intelligente, essere cittadina italiana, essere donna.

(Fanny Grespan)

 

Un libro dedicato ai poveri e al fenomeno della povertà. Infatti, l’autore esamina l’evoluzione del concetto di povertà ed afferma che essa è relativamente recente e legata ai bisogni creati da un certo tipo di società. Egli, iraniano e personaggio di spicco dell’ONU, tenta di fare un bilancio dei programmi di lotta alla povertà. Il suo intento non è quello di offrire facili ricette ma di ricondurre il pensiero del lettore al vero significato della parola.

(Alida Fonnesu)

Due ragazze di diciott’anni, un’israeliana e una palestinese, si conoscono nel 2000 in occasione di un viaggio in Svizzera organizzato da un’associazione pacifista. Il programma di scambi si interrompe a causa dell’intifada. Sollecitate da una giornalista tedesca, le ragazze continuano a comunicare tramite la posta elettronica. È un rapporto molto difficile: benché le due protagoniste vivano a pochi chilometri di distanza, ignorano tutto della lingua, della storia e della cultura dell’altra. Ad esempio l’israeliana si stupisce che la ragazza araba pensi già al matrimonio, lei aspira ad una futura carriera e nell’immediato farà il servizio militare, benché appartenga ad una famiglia di pacifisti. In realtà le due giovani vivono in mondi differenti, dove la diffidenza verso l’altro popolo, la coscienza dei torti subiti, lasciano ben poco spazio al dialogo. Entrambe aspirano alla pace, ma impressiona l’ignoranza assoluta, l’incomprensione totale delle ragioni dell’altra. Raccontandosi la propria vita, imparano ad esprimere apertamente le frustrazioni, la paura, la rabbia, la speranza.
Odelia partirà soldato e Amal (nome di fantasia) si augura di non doverla incontrare a qualche posto di blocco.
Un libro duro, per niente rassicurante, che fa riflettere su quanto sia facile dal nostro comodo osservatorio europeo trovare la soluzione ai conflitti e quanto invece sia difficile avere spazio per il confronto e la conoscenza reciproca quando ci si trova immersi dentro la guerra, l’ingiustizia, la paura.

(Daniela Borsato)

Non leggete questo libro prima di addormentarvi: potreste avere sonni agitati. E nemmeno dopo pranzo, se non volete rovinarvi la digestione. Però leggetelo. Non perdete l’occasione di erudirvi su come, anno dopo anno, legislatura dopo legislatura, i nostri politici siano riusciti a creare – una leggina qui, un decretino là - “il migliore dei mondi possibili”. Per loro, ovviamente, o al massimo per i loro familiari e amici. C’è stato un tempo in cui De Gasperi andava in visita ufficiale negli Stati Uniti con un cappotto preso in prestito e molti politici, anche tra le più alte cariche, faticavano a sbarcare il lunario. Era un altro momento storico, erano altre condizioni economiche, certo. Oggi però si è andati molto oltre quella che poteva e doveva essere  l’evoluzione del tutto naturale di un Paese e di un’epoca. Rizzo e Stella, giornalisti del Corriere della Sera, hanno condotto un’inchiesta precisa e approfondita sui costi, gli sprechi e i privilegi della politica italiana, a tutti i livelli. Di fronte ai tanti aneddoti – alcuni davvero spassosi nella loro assurdità – e ai dati ufficiali che sono lì, nero su bianco, è difficile non farsi prendere ora dall’incredulità, ora dall’indignazione, ora dallo scoramento: come si è potuti arrivare a tanto? E soprattutto: è ancora possibile restituire alla politica quella dimensione etica che sembra essere ormai preoccupazione di pochi? Le domande restano nell’aria, insieme a una sensazione netta e pesantissima di impotenza e smarrimento.

(Monica Anelli)

Cinque anni soltanto, ma sembra passato un secolo. Rumiz, triestino, scrittore di confine, esploratore del nordest d’Italia e dell’est d’Europa, nel momento di massima espansione delle spinte federaliste e secessioniste, viaggia nelle infinite diverse identità, nella paura e nella rabbia del profondo nord italiano.
Scopriamo così i miti veri o inventati che guidano i “serenissimi” all’assalto del Campanile di S. Marco. Ridiamo della paccottiglia leghista pseudo-celtica, del “dio Po”, del “sole delle Alpi”, antico simbolo alpino che non è mai stato verde.
Ma se i miti sono fasulli o ridicoli, la rabbia è vera. Rumiz tenta di rispondere a una semplice, banale domanda: perché questo astio, questa cattiveria, questo vittimismo in regioni che sono tra le più ricche d’Europa? Perché non si ribella invece il Sud, che ne avrebbe maggior motivo? Le risposte sono molte e difficili, contraddittorie, tutte discutibili, tutte facilmente smontabili con il senno di poi, forse già smentite dagli eventi successivi. Ma vale ancora la pena di leggere questo libro, se non altro per le splendide descrizioni delle varie “tribù” che compongono il popolo del Nord. I veneti, soli e perduti in un territorio che hanno costruito e snaturato così rapidamente da non riconoscerlo e non riconoscersi più. Gli emiliani della “riva destra”, per cui il “fare insieme” sembra invece il valore fondante, la chiave del successo, ma a guardare in fondo anch’essi divisi e frammentati. Gli altoatesini, che la loro identità etnica hanno saputo far fruttare, ricavandone denaro e assistenzialismo. I bergamaschi chiusi nei loro dialetti incomprensibili da una valle all’altra. Gli alpini di tutte le regioni, che dal caos alcolico delle loro feste emergono miracolosamente inquadrati e sfilano disciplinatamente per ore, ma nessuno porta il cappello allo stesso modo. Però poi basta un’alluvione, un terremoto e li ritrovi tutti lì, pronti ed efficienti come orologi svizzeri.
Troppo facile liquidare questo popolo di formiche tutte diverse, tutte intente a lavorare quindici ore al giorno, come “ignoranti e razzisti”. È anche così, ma non solo così. “La destra non capisce le Alpi perché è troppo centralista. La sinistra crede che tutti i localismi siano forme di razzismo. Rifiuta il grande discorso di Pasolini, quello della resistenza all’imperialismo culturale e all’omologazione."

(Daniela Borsato)

S

Autore: Donato SALVIA

Titolo: La mia mano destra

Editore: Bonfirraro

Anno: 2011

Un testo informativo, e nello stesso tempo narrativo, sull’handicap, raccontato in forma colloquiale da una persona colpita per errore da uno svantaggio, offre lo spunto per riflettere. L’errore è rappresentato, nello specifico, da un medicinale (commercializzato tra il 1959- 1965) prescritto alle donne gravide, come sedativo e antinausea. Il principio attivo del farmaco, il Talidomide, poteva provocare nei neonati gravi malformazioni agli arti. Donato Salvia, l’autore, è una delle tante vittime e, senza la pretesa di essere uno scrittore [“ Io non posso ritenermi uno scrittore.[….] Io sono uno a cui piace raccontare le cose per cui se questo libro non lo trovate di alto livello o ben scritto, come dovrebbe, perdonatemelo……”], lancia nel testo un messaggio a sostegno dell’integrazione: “ Sostenere che tutti siamo uguali è pura follia ed è controproducente[…….] L’integrazione parte dalla tolleranza , ma se non passa dall’intelligenza di entrambe le persone - la categoria protetta e la categoria protettrice - sarà sempre causa di scontri e di lotte secondo me improduttive. Quindi se il mio libro potesse aiutare le persone ad avere meno compassione per chi ha dei problemi e potesse aiutare qualcuno a mettersi in discussione malgrado la propria situazione, avrei già guadagnato più di quello che si possa immaginare. Per me sarebbe veramente una buona paga”.
Emblematica l’immagine stampata sulla copertina, in cui l’autore viene ritratto, ai tempi della Scuola Materna, con la sua mano destra focomelica ben nascosta da una macchinina, segno di disagio nei confronti della “ diversità” nei tempi andati e nel contempo di grande tenerezza. La stessa tenerezza che aleggia nel racconto nei momenti in cui Donato ricorda sua madre, imbarazzata ed impreparata a rivelargli la verità.

(Maria Pompea Coluzzi)

Davvero impeccabile la ricostruzione di questa giornata, una fra le tante del lungo regno del Re Sole. Non una qualsiasi, però, anzi, forse la più bella: è il 16 novembre del 1700 e Luigi ha appena saputo che suo nipote Filippo D’Anjou è stato designato dal re di Spagna Carlo II nel suo testamento come suo legittimo successore. I Borbone stanno per soppiantare gli Asburgo sul trono spagnolo e per Luigi XIV sembra finalmente realizzarsi il sogno di “riunire i Pirenei”.
Béatrix Saule, conservatore capo del castello di Versailles e specialista del periodo, ripercorre nei minimi dettagli, da mezzanotte a mezzanotte, i vari momenti – i pochissimi di solitudine e di intimità, i tanti sotto l’occhio del pubblico – della giornata del sovrano, col suo cerimoniale rigido e quasi immutabile. Talmente immutabile che l’autrice riesce a colmare i vuoti storici riferiti a quella precisa data pescando a piene mani in una documentazione copiosa e autorevole sulla vita quotidiana alla corte del Re Sole: i Mémoires di Saint-Simon, quelli di Sourches, di Dangeau, le cronache di Breteuil, le lettere di Madame Palatine o di Madame de Sévigné, per non citare che alcune delle fonti.
Béatrix Saule si è divertita a andare a caccia del dettaglio mancante, del particolare che invano potremmo cercare nelle cronache ufficiali o nelle pagine di storia, e ci ha restituito così il quadro vivo e palpitante di un personaggio e di tutta un’epoca.

(Monica Anelli

È difficile se non impossibile parlare di camorra in un territorio come quello campano.
L’argomento è tabù; parlarne ad un pubblico vasto non conviene, perché chi ti è intorno fa terra bruciata, perché le persone iniziano ad insultarti, a parlare male di te, ad additarti come “quello che parla male della zona in cui vivo”, “quello che ci ha fatto diventare la vergogna d’Italia”. Non conviene perché se esageri puoi rischiare la vita.
Saviano ha avuto il coraggio, che manca a troppe persone, di far parte di un osservatorio sulla camorra, di entrare in contatto con la malavita organizzata locale, di fare i nomi.
Il libro racconta lo sviluppo dell’imprenditoria cinese nel Napoletano, le grandi potenzialità di questo territorio che sono sfruttate sì, ma dalla camorra. Interi palazzi a Napoli sono sventrati e all'interno, negli spazi recuperati, vengono stipate tonnellate di merci. A Napoli e dintorni non si vedono mai funerali di cinesi nonostante siano presenti in gran numero, perché già quando partono dal lontano oriente stipulano una sorta di contratto in cui si stabilisce che dopo morti saranno rispediti in Cina all'interno di container. Al loro posto verranno rispediti in Italia altri cinesi "con tutti i documenti a posto". I documenti del morto. Il porto di Napoli è un inferno. Può capitare (ed è capitato) che si rompa un container: all'interno si possono trovare decine di cadaveri. La criminalità organizzata è presente nell’edilizia: mezza Italia è stata costruita da imprese edili napoletane e casertane. Una vera e propria maledizione, perché il territorio non si arricchisce, tutti i profitti vanno agli imprenditori del crimine. Il territorio tra Napoli e Caserta è invaso da rifiuti tossici e nocivi che provengono dalla Toscana, dal Veneto, dal Piemonte ecc. L'ecomafia si fa carico per quattro spiccioli di smaltire nelle campagne tra Marcianise ed Aversa tonnellate di rifiuti tossici e nocivi. Si va dall'amianto ai radioattivi. “Gomorra” nella prima parte ti trascina in un vortice di sensazioni ed emozioni, mentre nella seconda racconta i meccanismi, l’organizzazione, il business che stanno dietro a questa parola-tabù. Saviano è parte del suo racconto, non si arroga il diritto di giudicare tutto dall’alto, né descrive superficialmente ciò che racconta.
“Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato.” (lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile)
”Saviano è un fissato, dipinge Napoli come l’inferno. Catania è peggio di Napoli.” (dichiarazione del sindaco di Napoli)

(Giuseppe Landolfi)

 

Daniele Scaglione, per quattro anni presidente della sezione italiana di Amnesty International, ricerca le cause del genocidio rwandese del 1994, ma soprattutto il perché dell’indifferenza del resto del mondo di fronte ad un massacro di così vasta entità. Nella sua ricostruzione dei fatti, peculiarmente documentata, tenta di comprendere come questa scelta abbia trovato giustificazione. Il genocidio rwandese non ha rappresentato una delle tante crisi, bensì uno degli eventi più tragici di fine millennio. In Rwanda, il paese delle mille colline, una gran parte di cittadini si è preparata a massacrarne un’altrettanta gran parte grazie a una meticolosa e scientifica persuasione che ha utilizzato i moderni mezzi di comunicazione come radio e giornali.
Un libro che apre molti interrogativi anche sul mondo occidentale che, pur celebrando ogni anno la Shoah in memoria del genocidio ebreo, è rimasto inerte ed insensibile di fronte ad un evento altrettanto drammatico consumato ai giorni nostri.

(Teresa Ducci)

 

Scrivere un libro sulla scuola di oggi non è cosa facile. Un po’ perché è un tema su cui è già stato detto moltissimo, un po’ perché si tratta – come è facilmente immaginabile – di una questione di lana caprina. Con l’ulteriore specifica, en passant, che la capra deve essersi rotolata per qualche settimana in un cespuglio di rovi: in effetti l’argomento è anche piuttosto spinoso. E come in tutti gli argomenti spinosi, il rischio è quello di dire da un lato cose scontate e banali, dall’altro cose scomode. Scialfa però di cose banali non ne dice; può dirne qualcuna di scontata, ma solo nell’ambito strettamente necessario a fornire le informazioni indispensabili ai non addetti ai lavori, che vengono così messi in grado di avere chiaro un quadro su cui formularsi un giudizio. Di cose scomode, in compenso, ne dice moltissime.
La prima parte del libro è un vero e proprio j’accuse contro una gestione dissennata che in poco più di trent’anni ha portato allo sfacelo la scuola italiana e, con essa, il senso profondo della cultura, dello studio e dell’edificazione intellettuale a cui i valori dell’istruzione dovrebbero condurre. L’autore, attualmente preside di uno dei maggiori istituti tecnici genovesi, denuncia questa politica fallimentare non tanto con violenza, quanto piuttosto con l’amarezza di chi ama profondamente la scuola e alla scuola ha dedicato la vita.
Non va bene la scuola del sei politico, dell’ope legis e del politicamente corretto; non va bene la scuola ridotta a fabbrica di posti di lavoro a prescindere, a serbatoio di elettori, a succursale becera dei sindacati. Non va bene, in definitiva, la scuola che non metta la persona e i valori della cultura al centro di quella cosa delicatissima e quasi magica che è il processo di crescita dell’individuo attraverso un percorso educativo.
Sarebbe al contrario necessaria – e questa è la seconda parte del libro, costruttiva, che apre alla speranza – una scuola che trasmettesse dei valori e dei contenuti, che siano quelli della civiltà, della cultura, della mente e dello spirito. Per fare questo la terapia è una sola: massima serietà, insegnanti preparati e motivati, incentivati anche sul piano economico, dirigenti che sappiano fare il loro dovere e che pensino alle implicazioni didattiche – e non aziendali – della scuola. E meritocrazia, senza deroghe. Esami, concorsi, valutazioni. E presto, che non c’è più tempo, e la scuola italiana non può permettersi di perderne altro: ne va della formazione delle generazioni future, destinate a vivere in un mondo sempre più difficile.
L’autore si esprime in uno stile semplice, informale e diretto, ma non manca di fondare le sue affermazioni sul pensiero e sull’esempio dei grandi maestri, di cui vengono spesso citate le parole: grandi pensatori come Baruch Spinoza, Marc Bloch e Benedetto Croce, ma anche uomini impegnati nel sociale come Don Lorenzo Milani e Don Andrea Gallo, o docenti universitari come Francesco Cataluccio o Claudio Costantini.
Un libro idealista? Forse… ma per fare le cose e avere possibilità di successo bisogna crederci con convinzione, con dedizione, con passione. E Nicolò Scialfa ci crede.

(Paola Lerza)

“Sulla parete della nostra scuola c’è scritto: I care. Me ne importa, mi sta a cuore.”
Non ce l’ho più, questo libro. La copia che possedevo e che ho praticamente imparato a memoria  è letteralmente andata in pezzi e si è persa nei meandri della casa paterna. Era un’edizione mal stampata e mal rilegata, copertina bianca con scritte in azzurro, spartana al limite della povertà, come si addiceva a un’opera collettiva della scuola di Barbiana, Don Lorenzo Milani non compariva  nemmeno con il suo nome.  In un sito di insegnanti non credo di dover spiegare di cosa parla “Lettera ad una professoressa” e che cosa ha rappresentato per la nostra generazione. Oggi Lorenzo Milani è dimenticato. Forse luoghi come Barbiana non esistono più, forse abbiamo l’illusione che non ci sia più bisogno di lavorare perché Gianni abbia le stesse opportunità di Pierino. Ma io credo che se il priore di Barbiana fosse qui oggi, radunerebbe intorno a sé tanti Gianni che si chiamerebbero però Ahmed o Wang. Ora sono loro ad aver bisogno della lingua che li faccia eguali al padrone.
“…ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.”

(Daniela Borsato)

“Abbiamo imparato a vivere con quelli di cui sentiamo la mancanza, perché sono parte di noi, perché sappiamo come mai ci mancano e perché la loro assenza la colmiamo di orgoglio.”
Quando il generale Pinochet, il 16 ottobre 1998, viene arrestato a Londra su mandato del giudice spagnolo Garzón, l’autore si trova in Italia. Per due anni spera in una qualche sorta di giudizio che renda giustizia al Cile, ai suoi compagni desaparecidos e anche a lui stesso, torturato e costretto all’esilio. Ma le sue speranze rimangono deluse. Il generale ritorna in Cile trionfante e impunito: appena scende dall’aereo, si rialza sprezzante dalla sedia a rotelle che aveva usato per farsi credere malato. Questo libro raccoglie gli articoli che Sepúlveda ha scritto in quel periodo su giornali e riviste di vari paesi, per tener fede al “sacro ufficio della memoria” nei confronti di un’odiosa dittatura e delle sue vittime. Solo a tratti si ritrova qui il Sepúlveda narratore che conosciamo: troppa è l’indignazione, troppo grandi sono la passione e poi la delusione. Troppo importante è il compito di richiamare alle ragioni della giustizia contro le comode amnesie del potere, in Cile e altrove. “Scrivo per amore delle parole che amo… scrivo perché ho memoria e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise.”

(Daniela Borsato)

 

Cari colleghi, vi sentite mai infastiditi quando i genitori dei vostri alunni vi danno tranquillamente del tu, oppure vi salutano con un ciao al supermercato come fossero vostri amici di lunga data? Io sì, e molto. Quando ho iniziato a insegnare ho attribuito questo comportamento alla mia giovane età (avevo 22 anni), ma ora che di anni ne ho quasi 34 posso constatare che le cose non sono cambiate. Non è questione di superiorità: è questione di ruoli, educazione, pertinenza linguistica.
Questo è solo uno degli argomenti che Severgnini affronta nel suo saggio semiserio, ironico, divertente.
L’autore tratteggia, velocemente, ma a mio avviso in modo efficace, quello che è il panorama linguistico nell’Italia di oggi: errori, o cattive scelte linguistiche, che a volte sono più vicine all’ignoranza (sempre linguisticamente parlando), altre volte alla mancanza di gusto e alla maleducazione. Il saggio ha uno scopo: aiutarci a parlare e a scrivere meglio, fornendo anche semplici consigli… non per niente l’autore lo dedica a tutti coloro che scrivono da cani!

(Fanny Grespan)

Giuliana Sgrena racconta il suo sequestro da parte di sedicenti mujaheddin iracheni. Non racconta particolari inediti, non riporta rivelazioni clamorose, si guarda bene dall’avanzare ipotesi sulle motivazioni del suo rapimento e sui retroscena dell’assassinio dell’agente del SISMI Antonio Calipari da parte degli americani. Evita con cura accentuazioni emotive della sua drammatica esperienza, svolge insomma con grande rigore il suo mestiere di giornalista.
Il racconto del sequestro e della liberazione è inserito in un reportage puntuale, preciso e proprio per questo più allarmante, della realtà irachena: l’assedio di Falluja, le difficoltà della vita quotidiana, la crescente islamizzazione del paese, la condizione della donna, le fazioni in lotta per il controllo del territorio, la farsa delle elezioni, la resistenza, il terrorismo. Giuliana Sgrena non ha accettato di far parte degli embedded, i giornalisti al seguito degli americani, che non lasciano l’albergo e girano con la scorta fornita dagli occupanti. Non è questa la sua idea sul fare informazione. “Fuoco amico” ha un doppio significato: i colpi sparati dagli americani contro cittadini di un paese alleato, ma anche il sequestro di una persona che si era sempre impegnata per la pace e contro l’occupazione.
“Perché proprio me? È la domanda che mi ha tormentata durante la prigionia. Che fortunatamente è finita. E poi, l’angoscia: perché proprio Nicola Calipari? Avremo mai una risposta? Non possiamo rinunciare a cercare la verità."

(Daniela Borsato)

L’autrice, ricercatrice di letteratura francese all’Università di Salerno, si cimenta nell’esposizione di uno dei casi più eclatanti di errore giudiziario francese del XIX secolo focalizzando l’attenzione su un risvolto di fondamentale importanza: la nascita di una nuova concezione dell’intellettuale.
Nel 1894 un capitano d'artiglieria francese di estrazione ebrea, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi viene condannato alla deportazione all’isola del Diavolo. Solo una intensa campagna di stampa, condotta dallo scrittore Emile Zola, permette di riabilitarlo riconsegnandolo alla società civile.
Il libro, attraverso una approfondita ricerca bibliografica, ripercorre le tappe essenziali del celeberrimo caso, dalla condanna nel 1894 alla riabilitazione nel 1906, mettendo in evidenza l’importante ruolo degli intellettuali nella salvaguardia della Verità e della Giustizia.
L’ articolo apparso sul giornale “Aurore”, in cui Zola esplicitava il suo “J’accuse” nei confronti del potere, innesca non solo un acceso dibattito, ma la riapertura del caso. Si trattava di una lettera aperta al Presidente della Repubblica francese Félix Faure, in cui lo scrittore denunciava l'arbitrio giudiziario e la manipolazione dell'informazione a vantaggio del consolidamento di una cultura antisemita.
Il dibattito che ne scaturì spaccò la nazione tra i sostenitori della colpevolezza ed innocentisti: antidreyfusardi e dreyfusardi.
È da questo infiammato dibattito, a volte dai toni efferati, che emerge una figura nuova dell’intellettuale che rivendica la propria funzione socio-politica nella definizione della cultura di un popolo. Con questa orgogliosa rivendicazione, Zola trascina molti altri intellettuali ad assumere, attraverso la difesa del capitano ebreo, la più ampia difesa dei diritti all’Uguaglianza, alla Giustizia e alla Verità così faticosamente conquistati con la Rivoluzione Francese.
Il saggio intreccia con dovizia la narrazione dei fatti supportati dalla traduzione dei documenti e la riflessione personale dell’autrice. Nel leggerlo spesso vengono richiamati alla mente confronti con situazioni politiche attuali che mettono in guardia il lettore dalla persuasione che i diritti siano acquisiti per sempre e dalla possibilità di recrudescenze culturali. Un invito a tenere sempre alto il livello di guardia sulle dinamiche socio-politiche e sulle trasformazioni culturali. Molto interessante.

(Teresa Ducci)

Simone, che è un linguista e non un politologo, analizza in questo saggio l’insofferenza che prova nei confronti della società italiana che lo circonda. Fa questo presentando e analizzando tracce, lettere ai giornali, articoli di quotidiani, proverbi, frammenti di discorsi e riportando giudizi di grandi scrittori italiani e stranieri.
Il saggio è costruito come un insieme di lettere a un amico che ha deciso di lasciare definitivamente l’Italia perché le cose non vanno e non si intravede un cambiamento profondo all’orizzonte. Simone giunge a delle conclusioni piuttosto amare. Ciò che, secondo lui, rende l’Italia “il maggiore dei Paesi minori” è la mancanza di senso civico dei suoi cittadini. Gli esempi riportati dallo scrittore sono tanti e tutti portano a fenomeni quali il furbismo, il pressapochismo, il perdonismo, il servilismo, il bullismo, il consociativismo e altri ancora. Gli italiani non hanno rispetto del bene comune, non si sentono parte dello Stato ma vedono in quest’ultimo un nemico. Ciò fa sì che in Italia, per esempio, rispetto agli altri Paesi europei, le stazioni siano sporche e scarsamente illuminate, le file negli uffici lunghe, i moduli da compilare complicati e via di seguito. In Italia, dice Simone, il senso della collettività e la consapevolezza dell’altro e dei suo diritti sono molto bassi. Così la cosa pubblica è usata da tutti senza limiti tanto da rimanere distrutta nell’uso.
Analisi spietata e molto attuale della società italiana.

(Gabriella Rapella)

Chiedo scusa se mi autocito: “… si ha la molesta impressione che l’autore potrebbe disegnare altrettanti ritratti di uomini dell’altra parte. Ma ci si può sempre illudere che sarebbe un po’ più faticoso trovare tanta negatività.” Questo scrivevo nella recensione a “Tribù S.P.A.”
L’ha fatto: Stella in questo libro raccoglie una serie di ritratti degli uomini dell’Unione che hanno vinto le elezioni. La tecnica è sempre la stessa: cogliere di ciascuno le contraddizioni, le debolezze, i lati ridicoli, per costruire un ritratto che quasi sempre demolisce la serietà e la rispettabilità costruite da mass media sempre compiacenti verso il potente di turno. Eppure questa volta non è tutto negativo: qualcuno si salva, ad esempio le rarissime donne. Se davvero la qualità umana e intellettuale dei politici di sinistra sia mediamente superiore, o se sia l’autore a non essere del tutto imparziale, giudicherà il lettore. Il libro è come sempre godibile e divertente. Segnalo in modo particolare le cattivissime pagine dedicate ai due ultimi sindaci di Roma, Veltroni e Rutelli: specie quest’ultimo è spietatamente analizzato nel suo percorso politico, umano e religioso tutt’altro che lineare.

(Daniela Borsato)

 

 

Gian Antonio Stella ricostruisce non tanto una storia dell’emigrazione italiana, quanto la vicenda dei pregiudizi, dell’intolleranza, degli episodi tragici e violenti che hanno accompagnato gli emigrati italiani, in diversi paesi e in diverse epoche.
Scopriamo così che siamo stati anche noi “albanesi”. Sporchi, ignoranti, violenti. Che abbiamo venduto bambini, gestito prostituzione e traffici illeciti, che negli stati Uniti eravamo considerati “di colore”. Che la nostra emigrazione in gran parte è stata clandestina esattamente come quella degli extracomunitari di oggi. Ed è storia dell’altro ieri: l’ultimo clandestino italiano caduto al passo della Morte, appena oltre Ventimiglia, vi si schiantò nel 1962.
La bella favola degli italiani amati e apprezzati in tutto il mondo, al contrario degli immigrati di oggi, è clamorosamente smentita da fatti rigorosamente documentati.
Il libro è stato, com’è ovvio, violentemente contestato dalla Lega. Significativo il commento dell’allora sindaco di Treviso, Gentilini: "Purtroppo oltre agli immigrati dobbiamo sopportare anche un talebano di casa nostra".

(Daniela Borsato)

Tutti gli uomini e le donne di Berlusconi. La mappa delle persone in questo momento più potenti d’Italia, viste nelle loro gaffes, nei difetti, nelle debolezze, il tutto rigorosamente documentato a prova di querela. Ritratti disegnati impietosamente dalle dichiarazioni dei personaggi e talvolta dagli atti giudiziari.
Non si salva nessuno, l’effetto è “fanno ridere per non piangere”. Il pressappochismo, l’ambizione, l’ossequienza verso il potente di turno, la pochezza culturale e morale, l’indifferenza verso le proprie contraddizioni, scoraggiano qualsiasi tentativo di assoluzione. Si potrebbe ridere, e si ride, in effetti, ma è una risata amara, perché questi personaggi così spesso apparentemente ingenui diventano furbissimi quando si tratta dei propri interessi o di quelli del padrone. In un altro momento e in altre condizioni molti di essi sarebbero ospiti delle patrie galere.
Con la stessa tecnica, il collage di dichiarazioni e di documenti abilmente estrapolati dal contesto, si ha la molesta impressione che l’autore potrebbe disegnare altrettanti ritratti di uomini dell’altra parte. Ma ci si può sempre illudere che sarebbe un po’ più faticoso trovare tanta negatività.

(Daniela Borsato)

Cinque anni di storia contemporanea, cinque anni di vita trascorsa tra tradizioni uniche e talvolta spietate in un Paese-icona di avanguardia, nonché di incessante ricerca di rigorosa modernità. Ecco il Giappone di Angela Terzani Staude, che fa del suo diario nipponico questo avvincente racconto in cui racchiude pensieri, emozioni, impressioni, curiosità dei suoi lunghi giorni vissuti al fianco del noto marito giornalista Tiziano Terzani, in una delle loro straordinarie esperienze asiatiche. E l’autrice stessa, da questa avventura quinquennale, riscopre nell’anima del Giappone un grandioso esempio di coraggio e tenacia, caratteristiche proprie di una grande potenza mondiale, una vera centrale del potere industriale. Forse proprio per la sua grandezza politica ed economica, questo affascinante Paese del sushi e sashimi è obbligato a reggersi sulla forza inesauribile degli “uomini-salario”, sulle silenziose attese delle loro brave mogli, sui divertimenti notturni di quest’uomo-macchina nei numerosi love hotels che l’azienda offre per risarcirlo dal faticoso dispendio energetico lavorativo. Scrutatore è lo sguardo dell’autrice, che non esprime giudizio verso questa società del guadagno, ma che in fondo patisce per tutte quelle mama-san pronte a svendersi a favore di un’avida mentalità del possesso. Una vera finestra sul mondo questa sincera lettura, da non perdere per tutti gli appassionati che sanno mescolare arte, cultura, storia insieme agli accesi colori di un Giappone antico e sempre attualissimo, tutto da scoprire.

(Elisabetta Pandolfo)

 

Un padre si avvicina alla fine, chiama il figlio per raccontargli la sua vita: sarà lui, Folco, a scrivere questo suo ultimo libro. Va detto subito che non è una storia triste, per nulla. Perché il protagonista è Tiziano Terzani, così niente è come sembra. Un giornalista famoso, certo: un testimone di eventi epocali, uno a cui la Storia è passata vicino, proprio sotto il naso, un’infinità di volte. Ha visto la presa di Saigon, è stato espulso dalla Cina durante la rivoluzione culturale, è stato catturato e rilasciato dai khmer rossi in Cambogia… Ma non è per avere informazioni storiche che vale la pena di leggere questo libro. Se invece vi interessa sapere come i cinesi di un tempo allevavano i grilli, perché il Giappone provoca una terribile depressione, quanto si può essere felici meditando in un capanna sull’Himalaia, allora provate a seguire le conversazioni tra Folco e suo padre. Niente è come te lo aspetti. Un testimone della storia che rifiuta in modo radicale la sola idea di potere. Un uomo che si veste, mangia, vive come un santone indiano, ma sceglie di tornare a morire là dove è partito, in Toscana, tra i suoi cari. La frase ripetuta più spesso è: "Sono stato un uomo fortunato". Così non c’è tristezza, non c’è rimpianto in queste pagine. Piuttosto molte domande, anche alcune risposte, ma personali e discutibili. E poi senso dell’umorismo, curiosità, coraggio. "Se mi chiedi alla fine cosa lascio, lascio un libro che forse potrà aiutare qualcuno a vedere il mondo in modo migliore, a godere di più della propria vita, a vederla in un contesto più grande, come quello che io sento così forte."

(Daniela Borsato)

Ogni strada ha un inizio e una fine, soprattutto in quell’incomprensibile viaggio che è la vita. Cos’è la fine? Esiste veramente un confine superato il quale vi è il nulla? In realtà non potrebbe germogliare un fiore se non dopo la morte di un piccolo seme e la fine di qualcosa è solo l’inizio di qualcos’altro. In questo “altro” sta il grande mistero di ciò che non ci è dato sapere a priori e, pertanto, tentare di spiegarlo accrescerebbe solo l’illusione dell’uomo di poter conoscere tutto. A cosa varrebbe dunque vivere?
Tiziano Terzani ha vissuto l’intera vita viaggiando, prima di capire che il vero viaggio che compiva era la sua stessa vita. La sua lunga e stimabile carriera giornalistica gli ha permesso di vivere in prima persona grandi eventi della storia, tastando i terreni maestosi dell’Oriente il quale, oltre ad esercitare un indiscutibile fascino, fu vetrina di stragi e rivoluzioni epocali.
Da brillante giornalista quale era ha sempre avuto il desiderio di conoscenza, del “nuovo”, dello sconosciuto, cercando di essere il primo a farne notizia, scomodando le verità, ostentando spesso irriverenza  e infinita curiosità. Per Terzani il giornalista non è quello che scrive, impersonale, lo scoop di prima pagina, bensì quello che entra nei fatti, nella cultura del Paese, nella mentalità delle persone. Lui diventa proprio una di quelle persone, le studia, ne impara le abitudini, ne scopre il mistero. Il senso del viaggio non è la mèta ma il percorso e l’incontro che, strada facendo, ti avvicina ai tuoi compagni di avventura. Così Terzani, da modesto abitante del Monticelli, il quartiere popolare di Firenze in cui nasce, diventa uomo di grande cultura, dalle molteplici risorse e abilità, senza tuttavia perdere mai di vista la sua dimensione umana.
La scoperta della malattia è la grande molla della sua vita  fino agli ultimi momenti. Dopo aver rincorso gli avvenimenti per anni, dal Vietnam alla Cina, alla Cambogia fino all’India, decide di andare alla scoperta di un mistero più grande: se stesso. In un lungo dialogo col figlio, che è questo appassionante libro, Terzani lascia al mondo, in particolare ai giovani, il senso profondo di ciò che è stato questo viaggio, il significato di questo continuo cammino. Dopo aver assistito a tragiche violenze, guerre, colpi di Stato, incoraggia il mondo a non cercare la pace attraverso altra violenza, ma di avvalersi di pensieri propri, perché le alternative esistono se uno le vuole trovare. Ci insegna che non bisogna rinunciare ai propri ideali, alle proprie aspirazioni. Terzani è emblema del pensiero asiatico, abbraccia l’idea che non bisogna cercare troppo lontano quella verità che spesso è dietro l’angolo, ma è il nostro atteggiamento di fronte ad essa a palesarla. Più d’ogni altra cosa esorcizza forse la più grande paura dell’essere umano: quella di soffrire e, morendo, distaccarsi da tutto. Distaccarsi da se stessi, da cosa uno è stato, è diventato, ha ottenuto. Distaccarsi dalle proprie cose, dai propri affetti. La verità, che ben conoscono i rishi indiani, è che la sofferenza viene dall’identificarsi con le cose, le persone, il proprio lavoro o la propria famiglia, invece di guardare al mondo come a un continuo divenire, un’incredibile armonia tra gli opposti. Il viaggio è la speranza del cambiamento e la vita è il viaggio per eccellenza. È il viaggio di un giornalista nel mondo, il viaggio di un uomo nella storia, il viaggio dentro una malattia incurabile, dentro se stessi.
Questo libro è il resoconto di una vita in cui Terzani è stato tante cose e in fondo niente, giornalista, scrittore, padre, marito e infine uomo. Tutto che diventa nessuno. È un dialogo, un’intima confessione col figlio Folco cui affida le sue memorie, dato che lo stesso Terzani ritiene che solo  i libri e i figli possano garantire, in un certo senso, l’immortalità.
Cosa lascia dunque Terzani alla fine del suo viaggio? Lascia una vita vera in cui si è riconosciuto, che ha amato per le sue diversità, ma da cui si è anche distaccato, e che alla fine ha deciso di concludere non in una delle grandi città della Cina o dell’India, ma in un piccolo cantuccio familiare dell’Orsigna parlando al figlio Folco di quanto bello sia andare incontro ad una fine che non spaventa, ma che è un fantastico inizio. Emozionante ed intenso l’ultimo capolavoro firmato Terzani e pubblicato dal figlio dopo la sua morte avvenuta nel 2004.

(Elisabetta Pandolfo)

 

L’11 settembre 2001 Tiziano Terzani si trova nella sua casa di Orsigna, vicino a Firenze, e si prepara a passare l’inverno in Himalaia, come fa da molti anni. Si è ritirato dopo aver scritto per anni indimenticabili corrispondenze dall’Asia per Der Spiegel e altri giornali europei. In Asia ha cercato per decenni di comprendere quel mondo, la sua spiritualità, la sua diversità, fino ad identificarsi con esso nel modo di vivere e anche nell’aspetto esteriore, ma riuscendo a rimanere fondamentalmente “fiorentino, un po’ italiano, sempre più europeo”. Incongruamente, di fronte all’orrore delle Torri Gemelle, non riesce a togliersi dalla mente una strana espressione: “una buona occasione”. Questa catastrofe può davvero essere una buona occasione per l’Occidente, per rivedere i suoi rapporti con il resto del mondo, l’Oriente, l’Islam. Invece dopo pochi giorni è chiaro che l’occasione è perduta. E nei mesi successivi Terzani riprende il suo cammino da inviato, viaggia in Afghanistan, in Pakistan, in India, e scrive questi articoli per il “Corriere della sera”. Sono passati quattro anni e sembra un secolo: quello che Terzani cercava di scongiurare non solo è accaduto, ma non fa nemmeno più notizia. I grandi dibattiti sulla guerra, le manifestazioni in cui hanno sfilato milioni di persone, sono passati di moda. Le bandiere arcobaleno sono tutte scolorite. Intanto, dopo aver distrutto l’Afghanistan, ora in mano ai signori della guerra e ai mercanti di droga, invaso l’Iraq, in preda alla guerra civile con centinaia di morti al giorno di cui nessuno parla più, l’America di Bush si prepara alla guerra contro l’Iran. Bin Laden non è stato catturato, il terrorismo islamico ha trovato migliaia di nuove adesioni e miete vittime in tutto il mondo. Tiziano Terzani è morto nel 2004. Dopo questo libro ha pubblicato “Un altro giro di giostra” il racconto autobiografico della sua malattia e del suo estremo viaggio tra America e Oriente, tra medicina e magia, tra spirito e scienza. Un’altra “buona occasione”, l’ultima, per cercare di capire.

(Daniela Borsato)

L’Italia è un Paese di poeti, santi, navigatori e… opinionisti. Schiere di commentatori o sedicenti tali invadono con le loro chiacchiere tivù, radio e giornali, discettando di calcio, politica o delle ultime intercettazioni a qualche personaggio noto con la stessa noiosa prosopopea. Se le opinioni abbondano, però, i fatti – ahinoi! – scarseggiano. Perché a volte i fatti è meglio nasconderli, in tutto o in parte, per mille motivi; soprattutto perché un cittadino disinformato è una preda più arrendevole per chi ha interesse ad abbindolarlo.
Travaglio lancia qui un pesante atto d’accusa contro chi dovrebbe raccontare i fatti con obiettività, cioè i suoi colleghi giornalisti. Un giornalista ha il sacrosanto dovere di raccontare la verità e di raccontarla in maniera chiara e oggettiva. Se non lo fa, soprattutto se non lo fa deliberatamente, per nascondere o difendere qualcosa o qualcuno, allora gli dovrebbe essere impedito di continuare a fare quel mestiere, come accade in altri Paesi. Ma “se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto.”
Implacabile come sempre, forte della limpidezza di dati inoppugnabili, Travaglio ripercorre molte delle vicende che hanno occupato le prime pagine di giornali e notiziari non solo italiani negli ultimi anni, fornendo però anche le versioni “ufficiali”, quasi sempre molto diverse dalla realtà. Fa nomi e cognomi di chi ha mentito, di chi ha occultato, di chi si è reso colpevole di eccessivo servilismo verso i potenti; perché, per dirla con le parole di Indro Montanelli, “la servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi”.
“La scomparsa dei fatti” è un libro prezioso, uno squarcio di sereno nella nebbia della disinformazione.

(Monica Anelli)

   
 

                                                      

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