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Un libro dal sapore beckettiano. Un libro che scorre come una pellicola. Un diario di dolore e di memoria. Un diario palestinese. “Ogni volta che metto insieme le schegge della mia anima una nuova tragedia le disperde.” Non ci sono nomi né volti. I ricordi e il presente di due uomini (l’Uno e l’Altro) si alternano nel corso di una lunga notte. Il presente è un viaggio verso un paese sconosciuto per la Cerimonia della grande Realizzazione. Durante la notte avvengono strani ed inquietanti episodi. Lungo il cammino, il passato ritorna e si fa spazio, uno spazio senza tempo e, apparentemente, senza senso. Il racconto del presente sembra un viaggio verso il nulla, mentre il passato torna ad imporsi con una memoria dolorosa che riesce solo ad afferrare brandelli. Un massacro, dei morti, una fossa comune dalla quale l’Altro si è salvato, restando con un braccio amputato. In realtà egli non ha mai avuto quel braccio. Egli è nato per volontà di coloro che sono morti, donatori di parti del loro corpo. Ma un braccio è sfuggito alla rinascita. L’Uno lo ha salvato, lo ha portato con sé, suo alter ego, nato per testimoniare. "Si vive per dimenticare. Dimentichiamo per sopravvivere. Ma, per non morire, non dimentichiamo mai del tutto.”
Un gioco dei tempi, prettamente legato alle immagini, quasi cinematografico. Un gioco scandito dal dialogo tra i due personaggi di cui non conosceremo i nomi. Vittime predestinate, spogliate di tutto, della casa, della famiglia, della terra e, tragicamente, della loro storia. Testimoni di un popolo di vivi e di morti. E la vita e la morte si avvicinano. Alla fine, l’Uno chiederà all’Altro: “Perché non scrivi tutto questo?”
….
“Continuiamo a chiacchierare.
Un carro armato spunta all’improvviso e apre il fuoco direttamente su di noi.
Continuiamo a chiacchierare.
-Se non lo scrivi tu, troverò qualcun altro!
Continuiamo a chiacchierare.”

(Maria Cristina Rosa)

 

"E io? Già sono ridotta a buon punto! Mi sento una bestia ferita che non guarirà mai più, una pazza che fa finta di esser sana in attesa di… Bellu crancu, quello che mi sta mangiando il cervello. Sulla rete del mio letto, dove un tempo saltava l’amore con le sue mille capriole, al buio, ora danzano soltanto l’odio e la vendetta, come streghe maledette che mi chiamano nel sonno. (…)”
Storia d’amore, passione e morte nella Barbagia più profonda tra le due guerre: alla giovane Mintonia Savuccu uccidono barbaramente il marito Micheddu e lei si incarica della vendetta, che lucidamente porterà a compimento. Il suo lungo racconto-confessione, inviato a una nipote poco prima di morire nella lontana Argentina, dove si è rifugiata con i due figli, trasuda disprezzo e malinconia, tenerezza e rimpianto, e un dolore sordo che non si placa.
Più della storia, colpisce il linguaggio: aspro eppure poetico, fin troppo denso di suoni, odori, profumi, intriso di termini in sardo – anzi, di una particolare variante del sardo – che ostacolano spesso la comprensione, è insieme l’elemento di forza e il limite dell’opera, che probabilmente pochi (anche tra gli isolani) riusciranno ad apprezzare fino in fondo.

(Monica Anelli)

 

                                                      

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