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SAGGISTICA      AB

A

 

Alzi la mano chi, di fronte alle immagini di Bernardo Provenzano diffuse da tutti i telegiornali il giorno della sua cattura, non ha pensato: “Ma davvero questo è il capo della mafia?” Mentre le telecamere frugavano nel misero covo nel quale aveva vissuto l’ultimo periodo della sua lunghissima latitanza, tutti - o quasi... - dobbiamo aver concluso che la figura di quell’uomo vecchio e malandato non corrispondeva affatto a quella comunemente associata al “boss dei boss”. Ebbene, quello che Lirio Abbate e Peter Gomez cercano di spiegarci in questo libro è che no, in effetti la mafia è ormai altro da quello che si è sempre pensato. Non è più un signore anziano e malato, ormai scomodo, dalla cultura limitata, che comunicava coi pizzini, né il malavitoso smargiasso e amante della bella vita di certi film: da tempo ormai la mafia fa meno rumore, ha giacca e cravatta, spesso anche una laurea e si è infiltrata a diversi livelli nella vita amministrativa e politica, dove la mancanza di selezione da parte dei partiti consente collusioni e complicità. Non si spiegherebbe una latitanza di 43 anni se non con una rete di appoggi talmente capillare da coinvolgere vari piani della società e del potere. Abbate e Gomez ricostruiscono questa ragnatela in una sorta di noir (è lo stesso Gomez in un’intervista a definirlo tale) che in realtà del romanzo ha solo lo stile narrativo, un espediente per rendere meno sterile una storia fatta, necessariamente, di molti nomi, cifre, date, tutti rigorosamente veri e documentati. Non è sempre facile seguire la ricostruzione, a volte si deve tornare indietro, riprendere il filo perduto; non è un difetto degli autori, sono le vicende ad essere complesse, perché infinite sono le ramificazioni degli appoggi e delle complicità che, “da Corleone al Parlamento”, hanno protetto “ziu Binu” per decenni. Lirio Abbate, palermitano, redattore dell’Ansa e collaboratore de “La Stampa”, vive attualmente sotto scorta per le minacce ricevute dopo la pubblicazione del libro.

(Monica Anelli)

 

Quali segreti nasconde una ricetta di cucina? Un piatto prelibato? Un alimento succulento?
Non sono solo sapori per il gusto delle papille, ma penetrano nel profondo dei sensi, di tutti i sensi, che affiorano a pelle in cerca di soddisfazione.
Salse: altri fluidi essenziali.
Antipasti: primi morsi per solleticare i sensi.
Entrées: giochi amorosi, foglia dopo foglia, un bacio dopo l’altro.
Piatti Forti: Kamasutra… insomma più o meno!
Dolci: lieto fine.
Queste le definizioni dell’autrice per ogni portata. Non è solo un libro di ricette di cucina, ma l'approfondita ricerca degli effetti collaterali di ogni elemento che compone un piatto, nonché dei consigli per l’uso. Tutto condito, ed è il caso di dirlo, con un tocco di magia, poesia e gradevoli immagini che Isabel Allende amalgama nella stesura del libro con la sua tipica passione e sensualità latino-americana.

(Teresa Ducci)

Con “Lettera a un insegnante” Andreoli esprime il suo forte desiderio di parlare della scuola rivolgendosi al docente, che della scuola è il perno principale anche se sottovalutato.
Lo stile epistolare e il tu affettivo che usa rivolgendosi all’insegnante gli danno un senso di piena serenità, pur affrontando temi non semplici: non si fa giudice né mentore. La grande considerazione che ha dei docenti appare prima in una sorta di amarcord personale, poi la si evince dal tono confidenziale che Andreoli lascia trapelare dal suo lavoro di psichiatra: una lunga esperienza di comportamento umano, fatta di bisogni del mondo giovanile e quindi che abbraccia anche la scuola. Il rispetto che prova per l’insegnante, per la sua dignità, lo porta a scrivere le sue convinzioni sui giovani e sulla loro crescita. “Il sapere va calato nella storia presente in cui i giovani vivono… serve sempre, anche se non necessariamente garantisce un lavoro o il successo. Il sapere va sempre considerato un investimento… Una società che mette gli insegnanti al limite con la dignità di vivere, non ama il sapere.” Andreoli esorta a non mollare: bisogna essere fieri di essere insegnanti, di dedicarsi al sapere, di aggiornarsi, di svolgere la propria vita nella classe. Le forze dell’insegnante devono rinvigorirsi per tenere accesa la speranza a far dei giovani di adesso degli uomini migliori. La vera ricchezza dell’uomo sta nel “sapere” che si contrappone alla società del denaro. Il sapere è nel ruolo dell’insegnante ed egli deve approfondirlo e trasmetterlo con efficacia. È così che gli allievi vengono aiutati a comportarsi in maniera più significativa e più umana. Andreoli si rivolge così agli insegnanti: “Quale grado di divertimento provi a scuola, in quella classe... Quale il senso di gratificazione che ottieni, dopo un impegno intenso… Quale la gioia che deriva dall’essere parte di quel gruppo di bambini, di ragazzi…” “L’insegnante deve essere un buon direttore d’orchestra: scrive le partiture del concerto e fa partecipare tutti alla sonata. Il risultato non è riferibile a un buon primo violino, ma a tutti.” Chi di noi non ha avuto l’antipatico, il simpatico… La sua lettura ci porta a una serie di riflessioni, dovute a ragionamenti veritieri. “La classe al centro, al posto del singolo è una strategia che farebbe della scuola un’istituzione che insegna a vivere, e trasformerebbe la cultura e il sapere in strumenti per vivere.” Andreoli è contro la competitività, il solipsismo. La mia posizione è diversa: sì alle competizioni sane, finalizzate a dare il meglio di se stessi. Lui è per l’educazione sul gruppo, sulla collaborazione, sulla solidarietà e sull’aiuto reciproco che, a suo parere, non escludono il talento, il quale si manifesta dentro il gruppo e non per il proprio io. Abbasso ciò che non è mio; non mi riguarda. Ed è così che si deturpano le città e si inquinano gli ambienti. E quanto altro ancora!
In questo momento di grande turbamento nel mondo della scuola il libro di Andreoli è un mezzo efficace per riflettere. E lui, tra una pagina e l’altra, ci porta con il suo pensiero reale e garbato ad assumere una posizione di revisione professionale, magari per qualche piccola, diversa considerazione. L’operato dell’insegnante deve essere continuamente messo in discussione, da se stesso, perché solo così si potrà essere davvero utile agli allievi, alla classe, al sapere. E da “ vecchi” potremmo così essere più utili e più sereni.

(Adelina Mauro)

Un’indagine sul personaggio storico Gesù, che tenta di dare una risposta alle domande che da duemila anni si pongono credenti e non credenti: Chi era Gesù? È veramente esistito? Che ruolo ha avuto nella società del suo tempo? Perché è stato messo a morte?
Le fonti sono molteplici: i Vangeli riconosciuti dalla Chiesa, ma anche gli apocrifi, alcuni dei quali scoperti solo recentemente. Tutti i documenti sono accomunati dalla lontananza dai fatti narrati: contrariamente a quanto comunemente si crede, nessuno degli evangelisti è stato testimone oculare della vita di Gesù e tutto ciò che noi oggi leggiamo è stato scritto e rielaborato decenni o addirittura secoli più tardi. La stessa definizione di “cristiani” è molto tarda, inizialmente i seguaci di Cristo pensavano ed agivano come un piccolo gruppo nello stretto ambito della diaspora ebraica. La verginità di Maria, la natura divina di Cristo, la stessa accusa di deicidio rivolta all’intero popolo ebraico, che ha dato origine all’antisemitismo secolare solo da pochissimi anni sconfessato dalla Chiesa, sono tutte costruzioni molto successive alla vita di Gesù e alla sua predicazione.
“Sono convinto che la ricerca storica rigorosa non allontani dalla fede, ma non spinga neppure verso di essa….Soprattutto bisogna leggere i vangeli con la consapevolezza che l’uno non deve essere letto alla luce dell’altro, perché ognuno trasmette una visione diversa dei fatti… In principio c’è la diversità: non un solo cristianesimo, ma molti cristianesimi.” (Mauro Pesce)
Dal dialogo tra il giornalista-scrittore Augias e il biblista Pesce emerge una figura complessa e contraddittoria, completamente immersa nella realtà e nelle idee del suo tempo. Gesù era un ebreo osservante, fedele alle Scritture e alla Legge, conscio di possedere un eccezionale ascendente sulle folle, consapevole della sua missione, attento e sensibile alla povertà e all’ingiustizia, ma lontanissimo dalla tentazione di mettersi alla testa di un movimento politico o dall’idea di fondare una nuova religione in contrapposizione a quella dei suoi padri. Un uomo che non si rivela mai interamente, solo e tormentato, ma fedele ai suoi valori fino alla morte. Un personaggio che dopo 2000 anni continua ad affascinare chi lo crede figlio di Dio e chi lo legge semplicemente come figlio dell’Uomo.

(Daniela Borsato)

B

Son passati trent’anni, 1977-2007. Tanto si è scritto e tanto si è detto, su quegli anni lì. Parole inutili e spesso dannose. False verità e mezze bugie. Bieche rievocazioni, ambigue rimembranze. Dissociazioni oscure e coccodrillesche sconfessioni. In mezzo a tanto ciarlare, questo libro è una delle operazioni editoriali più significative su quel periodo. Lo lessi diversi anni fa, edito da Sugarco (1988). Lo prestai poi non ricordo a chi, come spesso succede, e non l’ho più avuto indietro. Lo scorso mese ho deciso di riordinarlo, non essendo disponibile in libreria. Partendo dai fatti del luglio 1960 a Genova (già e ancora Genova…) ripercorre il filo della memoria di un ciclo di lotte da diversi punti di vista, esistenziale, teorico, pratico, con un approccio serio e coerente, evitando ritratti caricaturali tanto diffusi sia a destra quanto, ahimè, a sinistra. Un’opera, quindi, rigorosa dal punto di vista storiografico ma, al tempo stesso, agile, leggibile, con tanti materiali e riferimenti documentati ed alcune integrazioni postume. Vedi l’appendice di quella grande ragazza del secolo scorso che è Rossana Rossanda. Vedi la nuova prefazione di Moroni che conclude, citando Kundera, "Non è forse vero che la lotta degli uomini contro il potere è anche la lotta della memoria contro l'oblio?"

(Maria Cristina Rosa)

Il titolo è fuorviante: non è un libro a tesi che dia voce all’odio contro l’Occidente, semplicemente sostiene che “Se vogliamo sconfiggere il terrorismo dobbiamo smettere di essere terroristi”. Senza nessuna indulgenza o giustificazione per attentatori suicidi e brutali assassini, questo libro si incarica di indagare sull’altro terrorismo, quello organizzato, pianificato e realizzato da nazioni cosiddette democratiche, come Stati uniti, Israele, Gran Bretagna, Russia. Non si salvano i governi arabi “moderati”, repressivi, inetti e corrotti. Un’impressionante e precisa analisi di fatti: massacri, torture, repressioni, centinaia di migliaia di vittime civili in tante parti del mondo, in Palestina, in America Latina, in Cecenia. Un terrorismo praticato sistematicamente nel disprezzo di tutte le regole stabilite dalle organizzazioni internazionali sostenute da questi stessi governi. Tutti crimini rimasti impuniti e addirittura giustificati con la “lotta al terrorismo” e prima ancora con la “lotta al comunismo”.
Soltanto il nostro colpevole strabismo può continuare a ignorare, ad esempio, il numero sproporzionato di civili palestinesi uccisi dall’esercito israeliano in azioni che non vengono però mai definite “terroriste” dai nostri media. Soltanto la nostra cattiva coscienza può fingere di non sapere che in Cecenia è in atto un vero e proprio genocidio. Soltanto la nostra distrazione può non farci sapere che negli Stati Uniti esiste un centro di addestramento militare, dal quale, a spese del contribuente americano, sono passati i più feroci dittatori, torturatori e assassini da tutto il mondo. Soltanto una colossale amnesia può farci dimenticare che gli Stati Uniti, mentre mettono a ferro e fuoco inutilmente intere nazioni per stanare il terrorista Bin Laden, ospitano in casa propria criminali di guerra condannati da tribunali internazionali per atti di terrorismo. Tutti fatti conosciuti, documentati e inoppugnabili. Per scelta precisa dell’autore, infatti, i documenti provengono da archivi ufficiali o addirittura dai servizi segreti degli stessi governi. Molti fatti sono già noti anche ai media, ma presentati in modo distorto: i crimini altrui sono efferati, quelli dei “nostri” sono “rappresaglie” o “azioni di guerra”, e sorvoliamo ipocritamente sulle conseguenze.

(Daniela Borsato)

Pur non condividendo totalmente le tesi dell’autore, giornalista livornese convertitosi all’islam dopo un discutibile passato politico, ma volendo comprendere la distanza che intercorre tra la critica all’ideologia sionista e il più becero anti-semitismo, mi piace proporre la lettura di questo libro poiché esso rappresenta anche un documentato atto d’accusa verso l’Occidente e l’atteggiamento colpevole dei suoi governi nei confronti della questione ebraico-palestinese. L’autore cambia l’ottica del problema, esaminando un’altra questione “non risolta”, più antica di quella palestinese, della quale si sono occupati in ogni tempo religiosi, filosofi, letterati, economisti e capi di stato: la questione ebraica. Questo termine era molto usato alla fine del XIX secolo e nella prima metà del secolo scorso, tanto dai nazionalisti giudaici ("sionisti") quanto dai più accaniti antisemiti, nella considerazione di un fatto oggettivo di quegli anni: la diaspora ebraica in Europa aveva acquistato pian piano un carattere laico, rafforzato da un’ideologia che è il corrispondente giudaico del nazionalismo europeo, cioè il sionismo. Ripercorrendo le tappe che vanno dalle origini del movimento sionista (Ezra e Nehemia) alla colonizzazione della Palestina, attraversando le teorie di Herzl e la dichiarazione di Balfour, Bellucci propone una lettura storica diversa, scomoda e non sempre condivisibile, da leggere con prudente spirito critico ma anche con l’attenzione che merita il problema, sempre più attuale, della nuova questione ebraica dei giorni nostri.

(Maria Cristina Rosa)

Nacéra Benali affronta, in questo libro-inchiesta, i luoghi comuni che condizionano negativamente il rapporto tra l’Italia e l’Islam. Racconta di come i musulmani siano stati vittime del terrorismo islamico e di come abbiano lottato, spesso pagando con la vita, contro la barbarie integralista. Ignoranza e reciproca diffidenza portano ad un clima di peggioramento delle relazioni, in un paese dove i pregiudizi nei confronti del mondo musulmano sono in continua crescita e dove i musulmani vengono descritti come terroristi, fanatici e violenti con le donne, irrispettosi verso i simboli cristiani. Demolisce, uno ad uno, i luoghi comuni che condizionano in maniera negativa, i rapporti tra Italia e Islam, puntando il dito verso chi alimenta tale reciproca diffidenza. E’ vero, molti pregiudizi sono ingiustificati, molte credenze vanno sfatate, l’ignoranza genera scontri, ma quel che mi è parso manchi nel libro è una visione totalmente obiettiva e scevra da una vena di amarezza. Difficile, forse, da chiedere ad una giornalista algerina che vive in Italia da molti anni perché minacciata di morte dagli integralisti islamici e che in Italia è stata più volte vittima di atteggiamenti razzisti. Scrive monsignor Henry Teissier, arcivescovo di Algeri, nella prefazione: “Non c’è un destino crudele che ci condurrà allo scontro di civiltà. C’è invece un’umanità che prende coscienza che i suoi problemi sono ogni giorno di più problemi condivisi da tutti e che tutti insieme dobbiamo affrontare."

(Maria Cristina Rosa)

Premessa: non ho nessuna intenzione di recensire il libro di Enzo Biagi, mi sentirei completamente fuori luogo e fuori di testa. Vorrei solo parlarne un po’. Ho finito di leggerlo da qualche giorno ma non l’ho tolto e non lo toglierò dal comodino. Perché? Perché c’è la sua foto in copertina. E lui mi guarda un po’ serio, un po’ sorridente, un po’ malinconico. Lo sguardo va dritto nel mio, quando mi corico in preda ai peggiori pensieri, mi parla, quando ho voglia di silenzio.
Leggete questo libro, per piacere.
Perché Biagi vi racconta la sua vita, personale e professionale. Parla della sua infanzia e della sua famiglia, della guerra e della Resistenza. Descrive i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue interviste. Pasolini, Gorbaciov, Sabin, Agnelli, Benigni, Fellini, Reder, lunghissimo elenco... Racconta i suoi dolori, con pudore e dignità, con semplicità e delicatezza, la morte della moglie, la morte della figlia. Cita, nelle prime pagine, suo padre che “faceva l’operaio e diceva di non avere padroni, solo principali”. E nelle ultime Montanelli “Il pubblico è il mio padrone”. La sua trasmissione “Il fatto”, secondo una giuria di giornalisti, è stato il miglior programma in cinquant’anni di Rai, azienda nella quale egli ha lavorato dal 1960. Poi l’editto bulgaro, la censura, l’oscuramento. Ma non è di questo che voglio parlare, è tutto scritto, documentato. È storia. Sostantivi e aggettivi e verbi, tutto improprio dalle mie dita. Ma il suo viso è una compagnia sul comodino. Mi scusi, dott. Biagi, se ho osato ma non sono riuscita a censurarmi.
E voi scusatemi se, al solito, sono stata scombinata e inconcludente.
Però leggete questo libro, per piacere.

(Maria Cristina Rosa)

Giorgio Bocca ha dedicato “Piccolo Cesare” alla figura di Berlusconi e “Basso Impero” a quella di Bush. Dopo aver denunciato l’arroganza di potenti senza qualità, in quest’ultimo libro descrive la società italiana, la passività e il cinismo con cui gli italiani subiscono e in parte condividono lo smantellamento progressivo della giustizia, del diritto, dei valori in cui si riconoscevano come eredi della Resistenza.
Distratti dalla Tv, dal consumismo, disattenti e pronti a dimenticare, non ci accorgiamo del progressivo restringimento dei nostri spazi di libertà. Una democrazia ormai vuota, dove le decisioni che veramente contano sono sottratte al controllo dei cittadini senza che questi muovano un dito. Bocca denuncia soprattutto la rassegnazione di fronte a un regime che ci ha portati alla guerra in Iraq. “Noi siamo per la scelta dell’utopia possibile, la scelta fatta dall’Europa di rinunciare una volta per sempre alle guerre… Scelta utopica, impossibile, ipocrita, ridicola, velleitaria? Ma l’unica che possa chiudere una buona volta la spirale del terrore, la vendetta della paura, l’eterna ipocrisia dei buoni affari gabellati per patriottismo e libertà.”
Chi legge Bocca da anni ritrova in questo libro la lucidità pessimista di un uomo che nonostante gli anni e le delusioni è ancora capace di indignazione. E ancora una volta viene da pensare a quanto sarà più povero questo paese quando questa generazione di “padri fondatori” ci avrà lasciato.

(Daniela Borsato)

Bocca dedica la sua scrittura vibrante, la sua lucida collera a una realtà che conosce come la può conoscere un settentrionale. Forse per spiegare veramente Napoli servirebbe un napoletano. O forse è giusto così: ci vuole uno di Cuneo per avere ancora la capacità di stupirsi, di indignarsi di fronte ad una bellissima metropoli europea, erede di una grande civiltà, che i suoi abitanti si rassegnano a lasciare in mano alla camorra, alla corruzione, all’inefficienza più totale dei servizi, all’indifferenza e all’opportunismo della sua classe dirigente, alla disperazione dei giovani senza futuro. Niente che già non conosciamo: la grande e piccola criminalità, lo scandalo dei rifiuti, la vergogna di Scampia. Niente che già non sia stato materia di centinaia di articoli di cronaca nera, di analisi sociologiche e politiche, da decenni. Manca qualcosa: un tentativo di indagare le cause, qualche proposta di soluzione, un minimo di approfondimento che dia al lettore un orientamento, una prospettiva, una chiave di lettura della realtà. Solo nell’ultimo capitolo si accenna alla tesi richiamata dal titolo: Napoli è né più né meno quello che è, o sta diventando, tutta l’Italia. Il libro ha suscitato naturalmente reazioni indignate in città: addirittura tre avvocati ne hanno chiesto il sequestro. Ma, girando per blog, ho trovato anche ampi consensi, soprattutto tra i giovani napoletani, non più disposti ad adeguarsi all’ipocrita malcostume degli intellettuali italiani, sempre pronti a considerare più offensiva la denuncia del male che il male stesso.

(Daniela Borsato)

Arricchito da una approfondita filmografia sul tema, il libro offre una rapida ma significativa panoramica del mondo della scuola visto dal cinema. Insegnanti gretti, talvolta meschini, ancorati al ventisette del mese, asserviti al potere dei superiori e malvagi con gli studenti? Queste le domande da cui parte il percorso di Bocci nell’esaminare come gran parte della letteratura cinematografica sembrerebbe tutta orientata verso l’attribuire significati solo negativi alla professione docente. Nessun ordine di scuola viene risparmiato, il professore appare incatenato al triste stereotipo di persona senza alcuna sensibilità, confinata nello squallore del ricatto del “brutto voto”. Potrebbe sembrare un atto di accusa ulteriore verso la categoria, uno sparare sulla Croce rossa: invece è una coraggiosa testimonianza di ottimismo nonostante tutto.
Bocci è anzitutto un insegnante fiero della propria professione, ma è stato anche studente sottovalutato, forse ingiustamente umiliato. Il libro si pone come elemento che facilita la messa in discussione intima (come sono percepito? Come sono? Come potrei/dovrei essere?) e condivisa. Senza alcuna puerile giustificazione, senza alcun filtro, guardiamoci negli occhi e diciamoci la verità.
L’ultimo capitolo apre la strada verso un modo alternativo di guardare all’insegnante e all’insegnamento. Si offrono esempi di insegnanti “positivi e affascinanti”, nessuna penna rossa sul cappello della maestrina che è, ora, una professionista che ricerca, progetta, sperimenta: è viva.
L’autore auspica una revisione del pensiero comune sull’insegnante; io, presuntuosamente, ci ho visto un po’ di noi.

(Alessandra De Acutis)

Sarebbe quantomeno presuntuoso, da parte mia, ambire a recensire un libro di Leonard Boff. Tentativo scartato in partenza, dunque. Mi piacerebbe soltanto suscitare un po’ di curiosità in qualcuno di voi. Boff, brasiliano, figlio di emigrati veneti, professore di etica e filosofia all’Università di Rio de Janeiro, ha fatto parte dell’ordine dei francescani fino al 1992. A partire dagli anni ’70 ha tentato di conciliare il Vangelo con la giustizia sociale, il grido degli oppressi e dei poveri con il Dio della vita, cercando di spezzare la morsa che teneva il cristianesimo prigioniero degli interessi dei potenti. Da ciò nacque la Teologia della Liberazione, la prima teologia latino-americana di rilievo universale. Mal gliene incolse! Nel 1984 si ritrovò seduto sulla stessa sedia dove sedettero Galileo Galilei e Giordano Bruno. Il suo giudice fu l’allora Segretario della Congregazione della Fede, tale cardinale Ratzinger. Argomento del processo, il libro “Igreja, carisma e poder”. Il processo lo portò alla condanna al “silenzio ossequioso” e, in seguito, a lasciare il sacerdozio. L’elezione di papa Ratzinger (”questa scelta potrebbe essere un flagello per tutta la Chiesa”) è l’occasione per una rilettura critica, tramite interviste e scritti, dei temi del dialogo interreligioso, del primato della Chiesa di Roma, della lotta al relativismo, della condanna della Teologia della Liberazione. Boff ha un giudizio netto sul papa tedesco: “L’uomo che ho conosciuto io ha un grande limite; è senza dubbi e coloro che sono senza dubbi non sono aperti al dialogo né sono capaci di apprendere dagli altri.”
È un libro straordinario, appassionato come le parole di Boff, come il suo schierarsi dalla parte dei poveri, dei deboli, degli oppressi. Come il suo sentirsi “erede di un Cristo che è stato perseguitato, accusato di essere un sovversivo e condannato perché lottava a favore di una liberazione integrale dell’uomo.

(Maria Cristina Rosa)

 

                                                      

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