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Val di Zoldo, Dolomiti Venete. Un luogo bellissimo di montagne, boschi, acque. Oggi regno del turismo invernale ed estivo, in tempi ancora recenti i suoi abitanti sono emigrati in tutto il mondo a vendere gelati. Allora però, siamo a cavallo tra il 1700 e il 1800, questo paradiso naturale era un luogo di miseria e di stenti. Questa è la storia di Mattio Lovat, uno dei tanti poveri disgraziati, impazziti per la pellagra, la malattia di chi si nutriva solo di polenta, uno dei tanti che finivano i loro giorni nel manicomio di S. Servolo, in un’isola della laguna. Ma Mattio è anche protagonista e testimone di fatti straordinari, sullo sfondo di eventi epocali: la fine della Serenissima, l’invasione delle truppe napoleoniche con le loro astratte promesse di libertà e le loro reali devastazioni e ruberie, la consegna del Veneto all’impero austriaco. “Co Venezia comandava/ se disnava, se cenava/ co i franzesi, bona zente/ se disnava solamente/ co la casa de Lorena/ no se disna né se cena.” La vita di Mattio incrocia più volte quella di Marco, misteriosa e malvagia reincarnazione dell’Ebreo Errante o emanazione della sua mente malata, chissà… Mattio si contrappone a lui nella sua angosciata ossessione di un’impossibile redenzione di se stesso e del mondo attraverso un estremo e sconvolgente sacrificio. Due personaggi affascinanti, due “matti” destinati entrambi ad essere inevitabilmente perdenti.
Vassalli racconta in modo splendido la vita nella valle, i viaggi in zattera sul Piave verso gli splendori e le miserie di Venezia, la ribellione ingenua e velleitaria dei montanari che invadono Belluno e terrorizzano i nobili cantando quello che oggi è un canto da osteria, ma allora era l’inno degli affamati: “Se el mare fusse de tocio/ e i monti de puenta/ ohi mama che tociade/ de puenta e bacalà.

(Daniela Borsato)

La protagonista, Rubina Buz, è una ragazza afghana di 16 anni, nata in un campo profughi in Pakistan. Ed ecco un’altra delle innumerevoli storie di guerra, miseria, oppressione. Invece no: Lucia Vastano, inviata di guerra, ci racconta una vicenda ricca di umorismo, ottimismo e speranza, e riesce a sorprendere e a scardinare i nostri comodi pregiudizi occidentali.
La famiglia Buz è benestante, Rubina non indossa il burka, frequenta la scuola, conosce l’inglese, usa il DVD e ha addirittura un suo sito internet. Nel campo profughi ci vive benissimo e non vuole ritornare a Kabul, dove la trascina il padre, convinto da un mullah fondamentalista a un velleitario tentativo di fare il padre-padrone e ad organizzare per le figlie due matrimoni combinati. Rubina e sua sorella Alia riusciranno con successo ad opporsi al padre e a sfuggire al destino segnato dalla tradizione, dalla paura, dall’ignoranza. La storia ha momenti drammatici, ma anche decisamente comici. Irresistibile la scena in cui le ragazze con la loro astuzia riescono a mettere in fuga le famiglie degli aspiranti fidanzati. La vicenda di questa famiglia, sospesa tra Oriente e Occidente, tra passato e futuro, tra miseria e tecnologia, dà voce e significato al desiderio del popolo afghano di reagire, alla voglia di vivere e di ricostruire un paese distrutto da decenni di guerra. Soprattutto ci consente di vedere oltre i pigri luoghi comuni, al di là delle donne velate e delle barbe islamiche: una realtà più complessa, disegnata con simpatia e rispetto.

(Daniela Borsato)

 

Con Mille anni che sto qui, il suo il primo romanzo, la scrittrice Mariolina Venezia si è giustamente meritata il Premio Campiello nel 2007. È la storia, quasi saga, di una famiglia di Grottole, paese del materano. Le vicende della famiglia Falcone si dipanano e si intrecciano in un arco di tempo che va dall’Unità d’Italia alla caduta del muro di Berlino. Attraverso le vite di Francesco, Concetta, Candida, Colino, Mimmo, Alba e tanti altri ancora, anche il nuovo mondo che avanza e l’antico che tenta di resistere cercano di intrecciarsi, di coesistere: il corredo da preparare e i supermercati in cui si trova tutto, lo Stato e il brigantaggio, le guerre, l’olio e il petrolio, il rame e la plastica, la fame e le pellicce, le masciare (delle specie di santone a cui i popolani si rivolgevano per togliere il malocchio) e le levatrici, le nascite e le morti; ma in realtà nulla sembra mai cambiare in quell’angolo d’Italia che pare immutato nel tempo, come i suoi sassi. Il libro è scritto con un linguaggio estremamente coinvolgente, che non può non stupire, capace di mescolare con maestria dialettalismi, monologhi interiori, discorsi indiretti liberi. Ottima la scelta del titolo, che non poteva essere più “indovinato” di così!

(Fanny Grespan)

Pietro è un manager televisivo di successo; ha una compagna, Lara, e una figlia di dieci anni, Claudia. In un giorno d’estate, mentre lui salva una sconosciuta che sta annegando, Lara muore improvvisamente.
Da quel momento Pietro prende, prima un po’ casualmente, poi sempre più convinto, la decisione di passare tutto il suo tempo davanti alla scuola della figlia. Quella che sembrava una manifestazione un po’ assurda di amore paterno si rivela suo malgrado essere una mossa vincente, non per Claudia, come Pietro scoprirà amaramente alla fine, ma per lui. Davanti a quella scuola, nei giardinetti o nella macchina di Pietro, irrompono i personaggi del suo passato e del suo presente: tutti portano i loro insostenibili pesi, tutti rimangono sconcertati davanti alle sue reazioni o non-reazioni. Tutti si aspettano da lui ciò che non vuole o non sa dare. Un mondo impazzito, affannato, dolente, che si infrange davanti al suo presunto dolore, alla sua insopportabile nuova serenità. In realtà forse Pietro non è più forte, saggio o comprensivo, in realtà anche lui è smarrito di fronte all’impossibilità di dare il giusto valore al suo lutto, alla sua paternità, alle sue prospettive di vita e di carriera. Intanto accoglie e conclude in sé le storie di tante vite che s’intrecciano, si avvicinano e si allontanano dalla sua. Sarà Claudia, alla fine, con la sua fin troppo matura richiesta di normalità, a segnare il traguardo di questo suo lungo percorso.
Un libro di molte storie in una, molti personaggi fra il tragico e il divertente, molte acute osservazioni sulla nostra società, in cui sembra che l’unico personaggio ad agire veramente sia il protagonista, fermo, ma per nulla immobile, nel “caos calmo” che gli gira intorno.

(Daniela Borsato)

Sono passati pochissimi anni eppure forse lo abbiamo già dimenticato, ma è accaduto appena al di là dell’Adriatico. Un’antica città, colta e civile, cosmopolita, abitata da genti diverse che avevano vissuto pacificamente insieme per secoli, la chiesa ortodossa accanto al minareto, è stata assediata per tre anni, sotto il tiro dei cecchini cetnici, sotto lo sguardo indifferente dell’Europa e del mondo. Ci faceva comodo liquidare la vicenda come una faccenda interna alle diverse etnie balcaniche, ignorando volutamente la volontà del popolo di Sarajevo di continuare a vivere. Marko Vesovic, docente di estetica, montenegrino di origine, sposato con una donna croata, sarajevese di adozione, cristiano ortodosso, si è schierato dalla parte dei musulmani e ha scelto di continuare a vivere nella città assediata. Ha continuato a scrivere sul quotidiano cittadino i suoi articoli, preziosa testimonianza di come si possa continuare a vivere con la fame e la paura, con i bambini fatti a pezzi mentre giocano per strada e conservare dignità e generosità, ironia e senso dell’umorismo. Ecco come l’autore spiega perché ha smesso di scrivere poesie: “Come faccio ad occuparmi di me stesso se sono sovraffollato dagli altri? A volte mi sembra che dentro di me non ci sia più posto per me stesso. Per me, io sono importante solo come memorizzatore delle loro storie, dei loro sguardi terrorizzati, dei loro volti sfigurati dall’orrore, del loro gesticolare impaurito. Nel corso della guerra ho avuto paura che una granata dei cetnici potesse sfracellare non me ma tutta una piccola umanità chiusa a chiave dentro la mia fronte, ronzante come un alveare”.

(Daniela Borsato)

 

 

I Tedeschi le avevano ammazzato il gatto, all’Agnese, e lei aveva deciso di fare lo stesso con loro. Ammazzarli. O combatterli, a modo suo. Prima ancora, le avevano portato via il marito, il Palita, e lei sapeva fin troppo bene che non lo avrebbe più rivisto; ma il marito era un uomo, e che gli uomini fossero deportati era “normale”… in qualche modo faceva parte dell’assurda legge di una guerra che un popolo ormai provato dagli stenti aveva accettato con rassegnazione disperata. Il gatto no. Il gatto era innocente, era libero, non aveva bandiera, non meritava di morire. Il Tedesco che gliel’aveva ammazzato… quello sì, meritava di morire. Era bastato un colpo ben assestato sulla testa per vederlo crollare.
Per gli altri, ci sarebbe voluto un lavoro più lungo e sistematico, che l’Agnese svolge con cura meticolosa e con l’impegno puntiglioso di una scolaretta, mettendosi al servizio dei partigiani e facendo la staffetta per loro, coprendoli, nutrendoli, consolandoli, annullando se stessa in nome della “causa”. Con eroico spirito di sacrificio, questa umile donna del popolo, dai modi rudi e semplici ma dal cuore grande, sostiene la Resistenza nelle valli di Comacchio, trasformate in una palude spettrale dalla cattiva stagione e dagli allagamenti provocati dai Tedeschi per arginare l’avanzata degli Alleati. Non le importa del freddo, della fame, dei piedi sempre gonfi nelle ciabatte scalcagnate: le basta lo sguardo riconoscente di quei ragazzi che la chiamano “mamma” e che cercano in lei qualche brandello di quella famiglia che hanno lasciato per andare a combattere. Clinto, il Comandante, “la Disperata”, Tom… tutti giovanissimi, che potrebbero essere i suoi figli, e quando ne muore qualcuno, per lei che di figli non ne ha mai avuti, è il cuore di una madre che si spezza.
E morirà anche lei, l’Agnese, “giustiziata” da una fucilata tedesca, ma non gliene importerà nulla, che intanto lei lo sapeva che sarebbe andata “a morire”, e solo così avrebbe raggiunto il suo adorato Palita. Resterà, a testimoniare la sua azione eroica, un piccolo cumulo di stracci neri stagliati sul terreno innevato, secondo una tecnica degna dei migliori Macchiaioli.
Ispirato a una storia vera e redatto in uno stile semplice, piano, veloce, L’Agnese va a morire è uno dei racconti più limpidi ed edificanti della Resistenza italiana, scritto da una donna per narrare i fatti di una donna.

(Paola Lerza)

 

                                                      

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