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C

“C’è, nella prima edizione di Marcovaldo, una spaziatura ogni tanto tra le righe che suggerisce una lettura. Ho cercato di seguire questo ritmo-misura aggiungendo solo un po’ di colore alle voci. Spero che non sia troppo, di sicuro con Calvino basta poco perché le righe respirino di vita propria.”
Con questa consapevolezza, con questo rispetto, Marco Paolini legge per noi le quattro novelle del primo ciclo della celeberrima opera di Calvino: e lo fa da par suo. Le sue doti affabulatorie non possono che esaltare e rendere ancora più godibile un capolavoro come questo. Ascoltandolo, ho ritrovato un po’ lo stupore e il piacere di quando, da piccola, sentivo le fiabe sonore dal mio giradischi: “A mille ce n’è nel mio mondo di fiabe da narrar…" e la stanza diventava di volta in volta bosco, castello, tugurio…
Qui la voce di Paolini e le splendide musiche dei Tanit - cinque tra i migliori musicisti della scena jazz italiana e internazionale – ci trasportano nell’arcigna città dove Marcovaldo, suo malgrado, è costretto a vivere, combattuto tra la rassegnazione e l’incapacità di adattarsi alle contraddizioni del progresso. Stralunato e candido, i sensi sempre all’erta, non si sa se più maldestro o più iellato, si ostina nonostante tutto a voler ritrovare quella natura tanto rimpianta e della quale in città non restano che pochi, striminziti segni. Ma, come scrisse Calvino, “(…) quella che egli trova è una natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale.” Una natura matrigna, insomma, che lo attrae e lo respinge, restituendolo ogni volta sconfitto alla grigia vita di tutti i giorni. E noi lettori, un po’ ridiamo e un po’ ci immalinconiamo, perché lo sentiamo tanto uno di noi.

(Monica Anelli)

 

C’è una lunga prefazione in cui Calvino spiega com’è nata l’idea di “Palomar”. In realtà parla d’altro: di ciò che voleva scrivere e non ha scritto. Già questo è un segnale: in questo libro niente è come sembra. Il signor Palomar porta il nome di un famoso telescopio ed effettivamente la sua  principale attività è guardare, ma non il cosmo infinito: Palomar si è dato il compito di osservare la vita nei dettagli più apparentemente irrilevanti, tentando di ricavarne qualche conclusione universale, impresa che tuttavia si rivela difficilissima. Egli è il simbolo dell’intellettuale che, tra ironia e consapevole distacco, tenta di muoversi tra le pieghe della nuova società dei consumi, cogliendone inevitabilmente le incongruenze, le sfasature, i controsensi. Questo libro va letto piano piano, frase per frase, non va divorato ma assaporato; alla fine si viene premiati da alcune delle pagine più geniali che siano mai state scritte in italiano: “La pantofola spaiata”, “Del prendersela con i giovani”, “Serpenti e teschi” e molte altre.
"Rileggendo il tutto, m'accorgo che la storia di 'Palomar' si può riassumere in due frasi: Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato."

(Daniela Borsato)

È un gioco letterario ma è anche una dichiarazione d’amore. Tanti libri dentro un libro solo, dieci storie diverse che iniziano ma non terminano, si concatenano con altre che a loro volta rimangono incompiute, dentro la cornice di un’altra storia, quella del Lettore e della Lettrice che s’incontrano e s’innamorano. Un gioco tutto di testa, un esercizio di abilità narrativa (la tipica tecnica “combinatoria” di Calvino). Ma io vi ho letto anche tanta passione: la passione del leggere e del raccontare storie. È un romanzo fatto di inizi. Varrebbe la pena di leggerlo solo per il primo incipit, la descrizione del lettore-che-sta-per-iniziare-questo-libro. Ma è tutto un divertimento, un piacere ogni volta frustrato e interrotto, che non permette comunque al lettore di lasciare il romanzo a metà.
Calvino lo ha definito “un romanzo sul piacere di leggere”. Io aggiungo: il piacere di leggere e di cogliere a nostra volta il suo piacere di scrivere.

(Daniela Borsato)

Approfondimento.

Una parodia della scrittura, una mistificazione della lettura, una metafora della vita. Tutto questo è Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. L’impalcatura a cornice, con gli episodi singoli incastonati in un racconto-contenitore più ampio, è antica e affonda le sue radici in Boccaccio, ma le soluzioni narrative adottate sono di una modernità sconvolgente, come pure appare sconcertante il motivo labirintico di tanti percorsi senza uscita e senza fine, di vie molteplici e apparentemente uguali da percorrere, di possibilità infinite, nessuna delle quali risolutiva. Anche una metafora della scienza, dunque, con l’apoteosi dell’antichissimo so di non sapere: nel proporre la contemporaneità di più universi possibili, intercambiabili e paralleli e nella prospettiva delle infinite variabili, Calvino esplica al meglio la sua tecnica combinatoria.
Il Lettore universale (l’uomo) inizia la sua attività di lettura (la vita) incominciando vari libri (vicende), nessuno dei quali può essere portato a termine per motivi assolutamente fortuiti (il caso): errori di stampa o di impaginazione, furti, falsificazioni, sostituzioni… e così gli incipit si sprecano, e l’autore dispiega tutto il suo divertissement narrativo per iniziare ben 10 romanzi, tutti avvincenti, tutti costruiti secondo processi di scrittura sofisticati e accuratissimi. Secondo un canone consueto, nel suo peregrinare tra biblioteche, librerie e improbabili società segrete, il Lettore incontra la Lettrice, con la quale si stabilisce il fil rouge della narrazione, destinata a concludersi con un tradizionalissimo, quasi scontato lieto fine matrimoniale. Avremo, dunque, la chiusa ironica e circolare di un Lettore letto che è a letto con la Lettrice, e legge Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Anche per la figura del Lettore, infatti, la prospettiva è molteplice: egli è personaggio della storia, ma è anche l’interlocutore a cui l’autore si rivolge con il “tu”; è attivo dentro il libro, ma anche fuori di esso, in quanto in lui si identifica ogni lettore esterno del romanzo.
La vicenda è costellata da apparizioni inafferrabili come Lotaria, sorella della Lettrice e suo “lato oscuro”, Irnerio, il non-lettore, il professor Uzzi-Tuzzi, studioso frustrato di una letteratura inesistente, Ermes Marana, falsario di libri e moltiplicatore di narrazioni, e perfino lo scrittore Silas Flannery, alter-ego di Calvino, che con tecnica un po’ hitchcockiana fa capolino nel romanzo.
Se una notte d’inverno un viaggiatore non racconta dunque una storia, ma la “forma” di tante storie, in una sorta di dissoluzione narrativa che sembra voler dichiarare la fine del narratore onnisciente, abile giostraio della sua materia. L’andamento del romanzo rompe in modo provocatorio, inatteso e imprevedibile il continuum della lettura, spiazzando il lettore con una serie – che potrebbe essere infinita – di intersezioni narrative.
Non classificabile dunque all’interno di un genere letterario convenzionale, l’opera si pone come un esempio di “metaromanzo”, prodotto postmoderno di una filosofia sempre in bilico fra la verità inconoscibile del mondo e la sua possibile falsificazione.
Lo stile, come nel miglior Calvino, è lucido, preciso, concreto, elegante e sobrio.

(Paola Lerza)

Il commissario Montalbano affronta il solito fatto di mafia, dove truffe e delitti si intrecciano con una certa “fantasia” del crimine. L’ambientazione è nella metaforica cittadina di Vigàta e nel territorio circostante. Ma questa volta il Commissario, durante le indagini, si imbatte in un altro delitto misterioso e conturbante accaduto cinquant’anni prima: i corpi nudi di una coppia di giovani trovati in una caverna, custoditi da un cane di terracotta. Contro ogni logica, Montalbano si butta anima e corpo in questa indagine difficilissima e ne viene a capo, usufruendo dell’aiuto di singolari collaboratori: gli anziani del posto (la memoria storica). Si direbbe un’inchiesta in pantofole mista a “cenette in famiglia” con i piatti preferiti dal commissario buongustaio .
Si notano nel romanzo una grazia naturale nel raccontare, una lingua intrisa di dialetto antico e un miscuglio delle culture millenarie che dimorano in Sicilia, dove si sono succedute ben sedici dominazioni.

Adele Chiappisi)

Fatica recente di Andrea Camilleri, un romanzo già tradotto in versione filmica per il piccolo schermo, un’altra “perla” della serie “Il Commissario Montalbano”. Le indagini prendono avvio da un fatto apparentemente banale, una bomba fatta esplodere davanti ad un magazzino vuoto, e da una serie di indizi e depistaggi che coinvolgono direttamente il Commissario, non solo nella sua veste professionale, confondendolo e disorientandolo, ma anche sotto il profilo personale. Il suo acume sembra assopito e trapela il disagio nel condurre indagini in cui si sente manovrato da un ignoto regista, qualcuno che sembra faccia di tutto per allontanarlo dalla verità. È un “gioco di specchi” che potrà solo inizialmente confondere Montalbano, alla fine sarà sempre lui a sciogliere il bandolo della matassa.
Il romanzo, come avviene per tutti i lavori di Camilleri, avvince il lettore con i suoi colpi di scena ed un linguaggio colorito e marcato, fortemente “agrigentinizzato” , costringendolo a leggere tutto d’un fiato la narrazione per giungere alla fine, allo sciogliersi dei nodi e all’individuazione dei responsabili. Tra i personaggi Liliana, una giovane bellissima, che coinvolgerà il Commissario tanto da fargli rischiare un’accusa di omicidio; due famiglie mafiose spesso citate nei racconti di Camilleri: i Sinàgra e i Cuffàro; due morti ammazzati e… non manca qualche riferimento a recenti fatti di cronaca, sebbene l’autore ci tenga a precisare che trattasi di un romanzo di pura fantasia.

(Sebastiana Schillaci)

 

Quello che è certo è che Michele Zosimo nasce nell’epoca sbagliata e nel posto sbagliato. Una mente dotata e lungimirante come la sua avrebbe di sicuro avuto più successo in luoghi e periodi di grandi cambiamenti… che so, durante la rivoluzione francese, o durante quella americana, o nell’Atene del VI secolo a.C. Così, invece, nell’immobile e arretrata Sicilia borbonica di fine 1600, la sua vita resta solo un bellissimo sogno, una speranza coltivata con amore e con passione, che i tempi trasformano in un frustrante fallimento.
Primo figlio maschio di due umilissimi contadini dell’agrigentino, Michele Zosimo si rivela subito un enfant prodige: precocissimo, intelligentissimo, fisicamente superdotato, avido di sapere, curioso, spregiudicato. Il suo concepimento, avvenuto tra Gisuè e Filonia dopo una notte di sesso infuocato tra lo stesso Gisuè e la moglie del signorotto locale, sembra la variante plebea del concepimento di re Artù, e tutta la sua vita avrà un’impronta di regalità. Perché Zosimo è un uomo fuori dal comune, un leader naturale, avanti anni luce rispetto all’ignoranza e alla gretta mentalità dell’epoca, piena di pregiudizi, di oscurantismo e di paure. In poche parole, Zosimo è un eroe. E come tutti gli eroi è anche un martire, una vittima della storia, che da sempre si fonda sulla legge del più forte e sugli intrighi della politica.
Il libro è un capolavoro anche dal punto di vista stilistico. Scritto interamente in un siciliano stretto, arcaico, appassionato, pieno di espressioni corpose e coloritissime, fa emergere dalla lingua stessa della narrazione lo spaccato di un’epoca e lo spirito di una terra. La scelta di Camilleri, di non distinguere il linguaggio dei personaggi da quello del narratore, ottiene come risultato un amalgama di potenza straordinaria, coinvolgente e a tratti commovente.
Leggetelo, e non lo dimenticherete con tanta facilità.

(Paola Lerza)

 

 

Adele è una donna bellissima, sensuale, che usa tutte le più raffinate astuzie femminili per irretire e dominare gli uomini, e difendersi da loro. In particolari circostanze indossa un tailleur grigio, sempre quello. Lo tiene chiuso in un armadio e lo tira fuori per indossarlo in occasione di qualche funerale o di un incontro formale, che comunque segna un momento particolare della sua vita, o una svolta. Sposa Daniele, un funzionario di banca, benestante, un borghese servito e riverito da un cameriere personale che vive con lui e previene qualsiasi sua necessità. La vita di Daniele, da quel momento, cambia in maniera radicale, ma alla fine anche per lui Adele indosserà il tailleur grigio.
Il linguaggio che Camilleri fa parlare ai suoi personaggi è quello di tutti i suoi romanzi, ispirato alla parlata agrigentina, ma la struttura di questo romanzo è diversa da quella cui l’autore ci ha abituati con la serie dedicata al commissario Montalbano.
Si sofferma sulla donna, sembra approvarne debolezze e cedimenti, quasi la giustifica… e Adele approfitta delle sue doti femminili per segnare la vita degli altri, di tutti coloro che incrociano il suo cammino.

(Sebastiana Schillaci)

L’ennesima “ammazzatina” a Vigata, l’ennesimo caso da risolvere per il commissario Montalbano: stavolta deve trovare l’assassino di un informatore medico-scientifico tutto lavoro, amante e doppia vita. Ci riuscirà, come sempre del resto, ma ancora una volta il successo avrà un retrogusto amaro. Non c’è trionfo nella scoperta della verità, solo una dolorosa presa d’atto e un senso di compassione per le miserie umane: perché sono acque torbide e insidiose quelle nelle quali Montalbano deve muoversi per ricostruire una verità che molti hanno interesse a tenere celata. Due donne, ognuna a suo modo inquietante, sono le custodi dei segreti che il commissario dovrà infrangere per arrivare all’illuminazione decisiva, svelando così il loro gioco, il loro tentativo di fargli credere, come fece una volta suo padre quando lui era “picciriddro”, che la luna è di carta.
Prevale, in questo romanzo, una sensazione di profonda malinconia: è il passare del tempo, è “la vecchiaia che tuppia testardamente alla porta”, è quel pensiero ricorrente “Quanno viene il jorno della tò morti…” che sempre più spesso assale Montalbano nel dormiveglia, di prima mattina… ma ancora una volta quella malinconia si stempera nella graffiante ironia di Camilleri e nella sua godibilissima prosa che avvolge, canta e diverte.

(Monica Anelli)

L’ultimo romanzo di Andrea Camilleri si differenzia dagli altri suoi scritti e come lui stesso afferma “…non è un racconto storico né un racconto poliziesco, è un racconto fortunatamente inqualificabile”.
La vicenda è ambientata in una casa chiusa, durante la Seconda Guerra Mondiale”, ma malgrado la scabrosità delle vicende, l’autore dà delle “ragazze” non una descrizione degradante ed accusatoria: le presenta piuttosto come delle “vestali”; il protagonista Nenè e gli amici Ciccio e Jacolino, appena diciottenni, tengono con loro un rapporto direi cameratesco.
Fatto straordinario, dalla frequentazione della pensione Nenè si arricchisce spiritualmente, ascoltando le storie umane di quelle ragazze che vivono una specie di duplice vita.
La guerra comunque colpisce tutti: la donna, per quanto non direttamente in combattimento, è la più profondamente colpita, vittima non solo degli invasori, ma dei suoi più stretti congiunti; il protagonista e gli amici vengono coinvolti dalla vicenda bellica ed anche la pensione Eva non sopravvive ai bombardamenti. Solo due delle ragazze riescono, in maniera diversa, ad affrancarsi da quella triste vita: Siria con uno stratagemma riesce a sparire col suo amante, il baronello Nicotra di Monserrato, e Lulla sparisce per mare con Giugiù.

(Adele Chiappisi)

Diego è un docente universitario di Roma che ogni giorno si reca in treno dalla capitale a Pisa, dove insegna. Si occupa della revisione di un vocabolario che lo tiene legato all'ossessione per le parole, come se queste avessero la forza di dare un significato alla realtà che lo circonda: è proprio con le parole che Diego, uomo razionale, taciturno, quasi bloccato ancor prima che gli eventi accadano, cerca un appiglio per ciò che non riesce a definire. Le parole come barattoli che racchiudono il significato vero della sua realtà. Ma non è mai abbastanza. In una mattina di quei viaggi di andata e ritorno, il treno si ferma in una galleria per un guasto: tutto diventa buio e Diego sviene. A risvegliarlo è una voce distante ma vicina, quella di Antonia, che col suo cappello nero da uomo sulla testa riesce ad aiutarlo nella ricerca di significati autentici. Una storia d'amore che lentamente nasce e d'improvviso cancella ogni passaggio che Diego si era volutamente prefissato. Antonia è una donna ambigua, che non si sa da dove sia apparsa ma che è apparsa comunque, piombata nella vita razionale e stabile di un uomo che altro non ha se non le parole e una madre malata di Alzheimer. La loro è una storia dalla quale Diego cerca di estrarre la perfezione, un senso che spieghi le emozioni che – finalmente – riesce a provare. Ed è proprio quando sembra averlo trovato che ogni cosa si ribalta, dall'ultima pagina di un libro bisogna tornare indietro per capire da dove tutto ha avuto inizio: una menzogna è il punto di ritorno alla razionalità per Diego, che, dopo la morte di lei, non riuscirà a darsi pace. Nella rilettura della loro storia, dalla fine all'inizio, capisce e si addolora per non aver aspettato, per aver dato modo all'ambiguità di Antonia di vincere sui suoi sentimenti, o significati finalmente giusti. “Ho capito che non me ne faccio niente del significato delle parole, me ne faccio qualcosa del significato delle persone”. Tutto torna e niente torna.
In questo romanzo l'autrice ha utilizzato una scrittura più “adulta” rispetto ai suoi due precedenti (Ma le stelle quante sono e Io sono di legno), poetica e diretta allo stesso tempo per i suoi pochi ventisei anni. All'inizio non si comprende bene dove voglia arrivare, la rapidità con la quale è scritto fa sembrare che manchi una narrazione vera e propria, che però c'è e non è la solita. Vi sono parole e frasi che colgono nel segno, pensieri ed emozioni che portano a riflettere. E' un libro rapido, veloce, una storia lunga un anno ma sulla carta solo 90 pagine. Colpisce perché è vero e triste.

(Chiara Canu)

Non basterebbero dieci recensioni per parlare di questo libro, tante sono le cose da dire, i collegamenti che suggerisce, gli spunti che offre, le emozioni, gli immancabili confronti, i ricordi che, come flash-back, riporta alla memoria.
Restiamo, allora, nel romanzo. Anestetizziamo il personale e mettiamo dei confini, delle restrizioni, lì dove i confini andrebbero divelti, ma tutto ha un limite, soprattutto in una recensione piccola piccola…
Il libro è completamente autobiografico, Marie ha trent’anni e la Cosa, la malattia innominabile e inspiegabile, si è impossessata di lei tra incubi, angosce, paura di vivere e di morire, emorragie continue e secrezioni nauseanti...
La Cosa ha sempre covato in lei, da bambina, per trasferirsi definitivamente nel suo corpo, uscendo allo scoperto in manifestazioni umilianti e devastanti.
Tra la clinica e la tentazione del suicidio, lei sceglie la terza via, l’analisi. E racconta… “Il dottore sta chiaramente aspettando che mi decida a parlare.
-Dottore sono malata da molto tempo. Sono scappata da una clinica per venire da lei. Non ce la faccio più a vivere.
I suoi occhi mi fanno capire che mi sta ascoltando, che devo andare avanti…
-La psicoanalisi può sconvolgere completamente la sua vita-le risponde il dottore.”
Ma che cosa può sconvolgere la sua vita più di quanto non avesse fatto la Cosa con tutti i suoi tentacoli?
Per sette anni percorrerà il “vicolo senza uscita, fino in fondo, fino al cancello di sinistra da quell’ometto” che la porterà a rinascere, a liberarsi.
Un viaggio all’interno di se stessa lungo e faticoso, da cui Marie cercherà più volte di sottrarsi, ma la consapevolezza che andare avanti significa allontanare la Cosa la porta a proseguire, lentamente, dolorosamente, senza scorciatoie...
Il viaggio di Marie è un viaggio all’inferno, dal quale riemergerà affrancata, rinata, pronta ad andare avanti, a vivere.
Le parole per dirlo sono le parole che Marie usa per liberarsi, le parole strumento terapeutico, le parole unico mezzo, unico potere.
Sono le parole che riportano alla luce la Marie bambina, il suo passato, il rapporto conflittuale con la madre, il rapporto mancato con il padre, la paura nei confronti del proprio corpo, del sesso…
Una storia tutta al femminile, come femminile è il linguaggio, caldo, diretto, concreto, visivo.
Mi accorgo che di paletti ne ho messi tanti, per volontà e per incapacità.
Avrei voluto mettere in luce tanti s/punti che mi hanno fatto fermare nella lettura, tornare indietro, chiudere il libro e gli occhi, riflettere, passarmi una mano sulla fronte, talvolta sorridere. Mi fermo qui, però, con le mie poche povere “parole per dirlo”, ritagliate, frenate, spezzate, ma assolutamente desiderose di invogliarvi a leggerlo, trovarci un pezzetto di voi e sentirvi, come Marie nelle ultime righe, “una voglia di vivere e di costruire grossa come un pianeta.

(Maria Cristina Rosa)

Chi aveva nostalgia di Giorgio Pellegrini, l’ex terrorista già protagonista di “Arrivederci amore, ciao”, non rimarrà deluso: il lupo non solo non ha perso il vizio, ma non ha perso neppure un pelo ed è tornato più infame che mai. Durante questi dieci anni si è rifatto in qualche modo l’immagine grazie all’appoggio di amicizie influenti e ha fatto molti soldi con un locale “di tendenza” frequentato da politici e industriali del Nord-Est che siglano in quell’ambiente discreto accordi per operazioni quasi sempre illegali. Proprio una di queste operazioni coinvolge direttamente Pellegrini, che apprende di aver perso una notevole somma di denaro in un investimento immobiliare affidato al suo avvocato, ora anche parlamentare della Repubblica. La notizia fa riemergere in Pellegrini gli istinti sopiti: per vendicare quello che a suo avviso è un vero e proprio tradimento, metterà in atto una catena di ricatti e di violenze inaudite.
Carlotto sembra aver perso smalto in questo noir: il personaggio di Pellegrini appare a tratti talmente ingabbiato nella sua cattiveria e mancanza di scrupoli da risultare addirittura poco credibile, oltre che estremamente sgradevole. Le figure femminili, dalla moglie fedele e sottomessa all’amica-amante-schiava alla socia in affari, appaiono pallide ed eccessivamente deboli, quasi delle comparse funzionali alla misoginia e al cinismo del protagonista. Molte situazioni, forse per le numerose allusioni a un recente passato politico, sanno di déjà-vu. Insomma, alla fine di un giorno noioso… resta un po’ di noia.

(Monica Anelli)

La vicenda narrata in questo romanzo ha un percorso a parabola: la violenza, la prepotenza, la cattiveria sono legate l’una all’altra in una storia turpe e criminale. Il giovane protagonista, un uomo senza principi, vuole lasciarsi alle spalle un vissuto politico rivoluzionario che lo perseguita e che non gli ha permesso di realizzare quello cui aspirava: entrare nel mondo dei vincenti. La storia inizia in Sud America, dove egli viene incaricato dalla guerriglia di giustiziare un suo amico di militanza rivoluzionaria . Torna in Italia e per rifarsi una vita vende i suoi ex compagni in cambio di un forte sconto di pena; poi quando esce di galera fa una rapida carriera, sfruttando donne, truffando, esercitando ricatti e compiendo azioni criminali di ogni tipo. Grazie al suo fascino, al cinismo e alle relazioni sociali in un certo Nordest  assetato di denaro, passa dalla marginalità alla buona società e diventa un vincente. Carlotto usa la sua “cultura carceraria” per fornire un ritratto sconvolgente, realistico e impietoso  dell’Italia degli anni '70. Tanti hanno cercato di ricostruire, con disinvoltura, la loro purezza sociale e politica, prevaricando con ogni mezzo pur di avere successo, potere e rispettabilità.

(Alida Fonnesu)

Il racconto, vincitore del premio letterario nazionale “G.Dessi” (Villacidro 1995) è vivace e autoironico e si può definire romanzo di formazione (e di deformazione), di una vita costretta al vagabondaggio. Questo libro miscela il reportage giornalistico col «giallo di pura fiction» e sembra anticipare il genere delle opere successive dell’autore. Una lunga storia in cui  l’autore narra  le sue peripezie nel periodo della latitanza prima in Francia e, poi, in Messico. I temi affrontati sono tanti: il tormento della nostalgia, il desiderio di tornare in patria, i sensi di colpa per il sacrificio imposto alla famiglia, la rinuncia agli affetti e all’amore. Un’autobiografia lucida e dura.

(Alida Fonnesu)

 

 

Jimmy è un minorenne della campagna veneta che vuole una vita facile, piena di soldi e lusso, senza però studiare o lavorare: un balordo provinciale che rinnega l’educazione ricevuta in una famiglia di persone semplici che vivono dignitosamente del proprio onesto lavoro. Ma è un ambiente troppo mediocre per Jimmy, che vuole affrancarsi da una vita di sacrifici: per questo vive di piccoli crimini e il suo grande sogno è una rapina in banca. Viene però arrestato per una rapina ad un benzinaio e finisce in un carcere minorile a Treviso, dove entra in contatto con lo spietato mondo della detenzione. Nonostante ciò, non si vuole piegare al regime carcerario e non si pente di ciò che ha fatto e nemmeno del grande dolore che ha arrecato alla sua famiglia che lo abbandona a se stesso. Per questo, dopo essersi ribellato per l’ennesima volta alle dure regole del carcere, viene mandato in un altro istituto in Sardegna, dove però continua a sognare la fuga. Proprio per fuggire, chiede il trasferimento presso una comunità di recupero: La Collina di Don Ettore Cannavera, situata a Serdiana in provincia di Cagliari, che attraverso il lavoro e la vita in comune dei giovani detenuti, costituisce ormai da anni una concreta alternativa al carcere. A Jimmy sembra la soluzione ideale per organizzare la fuga e realizzare così il suo sogno mai abbandonato: la rapina alla banca. Mentre elabora il piano, viene però in contatto con degli operatori volontari della comunità, persone di buona volontà che gli danno fiducia e che lo aiutano a riflettere sulla sua vita passata e sul suo futuro.
Accade così nella comunità quel processo di trasformazione e di presa di coscienza che porta Jimmy ad abbandonare la mentalità di balordo di borgata. E proprio quando gli capita l’occasione favorevole per fuggire, subentra in lui un sentimento nuovo: la vergogna di tradire così le persone che hanno creduto in lui. Per questo decide di tornare indietro e di aspettare la fine della detenzione per iniziare una vita diversa.
Un romanzo in cui Massimo Carlotto ci offre numerosi spunti per una riflessione approfondita sulla criminalità giovanile, gli istituti di rieducazione e le comunità di recupero del nostro tempo.

(Liliana Manconi)

La storia: nel 1900 un anarchico torna in Italia e si chiude in silenzio. Un secolo dopo un suo nipote arriva a Buenos Aires e si ferma in un hotel. Il protagonista scoprirà l’esistenza di un ramo della sua famiglia grazie ad una donna straordinaria. Un bellissimo romanzo/diario, basato si fatti e personaggi veri. In maniera completa e precisa lo scrittore, che è anche il protagonista,  descrive il modo in cui le persone sparivano, le torture fisiche e psicologiche,  la morte,  la sepoltura nelle fosse comuni. Parla anche del traffico di bambini, figli delle donne sequestrate, che venivano eliminate subito dopo aver partorito e del ruolo immorale della Chiesa e dei governi di tutto il mondo rispetto alla vicenda. Le reali  protagoniste sono, però, le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, luogo mitico, in cui, tutti i giovedì, queste donne, simbolo della resistenza, del ricordo e della richiesta di giustizia, si riuniscono e marciano per tenere vivo il ricordo dei loro cari e perché coloro che agirono tanto spietatamente non possano dormire tranquilli.

(Alida Fonnesu)

Massimo Carlotto è nato a Padova ma vive a Cagliari: in questo libro incontriamo l’Alligatore, un ex- cantante di blues, Beniamino e gli strani personaggi che li aiuteranno a trovare la verità in un caso complicato. Il tema principale è l’assassinio di una donna che fa da sfondo alla realtà sociale che circonda gli avvenimenti.
La scrittura musicale e vibrante non riesce a nascondere del tutto le note del disagio e della malinconia. La lingua è vivace ed immediata.

(Alida Fonnesu)

Scorre via veloce questo noir di provincia dallo stile asciutto e dal ritmo incalzante, scritto a quattro mani da Carlotto e Videtta. Al centro della storia l’omicidio di una donna in procinto di sposare il rampollo di una delle famiglie più potenti del paese. Sarà proprio lui, giovane - e per certi aspetti troppo ingenuo e “puro” - avvocato destinato a succedere al padre nella conduzione dello studio di famiglia, a scoprire l’identità dell’assassino ma anche una serie di verità scomode e dolorose fino a quel momento nascoste sotto la patina di opulenza e rettitudine dell’operoso Nordest italiano. Sullo sfondo, i mali piccoli e grandi di una provincia dove il processo di industrializzazione ha lasciato dietro di sé un ambiente depredato e sacrificato alle fabbriche e un’illegalità diffusa a più livelli; e poi le “famiglie”, le grandi famiglie industriali custodi di ipocrisie e segreti inconfessabili, pronte a immolare i loro figli sull’altare del potere, del denaro, del perbenismo più becero e cieco. Francesco, il giovane avvocato, rifiuta di piegarsi a queste logiche e va alla ricerca della verità… che sarà amara, sì, ma anche - e soprattutto - liberatoria.

(Monica Anelli)

Leggete Carofiglio, gente: fa bene allo spirito e al cervello. È uno di quei felici casi in cui uno ha delle cose da dire e le dice anche in maniera straordinaria, con quella sua scrittura essenziale e leggera che fa volar via le pagine una dietro l’altra, che quasi ti dispiace di finire il libro troppo in fretta.
Carofiglio, magistrato di professione, si è inventato un personaggio di quelli che “bucano” la pagina, un giovane e tormentato avvocato barese alle prese con cause difficili, e ne ha fatto il protagonista di una serie di “gialli legali” arrivata finora al terzo episodio.
In questo, il secondo, l’avvocato Guido Guerrieri si imbarca nella costituzione di parte civile nella causa intentata da una giovane donna contro le violenze dell’ex-convivente. Causa che appare fin dall’inizio una vera e propria “mission impossible”: l’uomo, infatti, non è solo un noto medico della Bari bene, ma è anche il figlio di uno dei “baroni” del tribunale locale.
Guerrieri, che si esalta proprio nella situazioni più spinose, parte ancora una volta per la sua crociata, armato del suo profondo senso di giustizia, ma anche di intelligenza, perizia e passione. Intorno a lui si muove tutta una serie di figure che tracciano un quadro alquanto convincente della varia umanità che popola le aule di un tribunale di provincia.
Quello che mi piace di Guerrieri è il suo essere un personaggio solido, a tutto tondo: Carofiglio ce lo mostra anche nella vita privata, con le sue manie, i suoi passatempi, la sua complicata vita sentimentale. E il suo raccontarsi in prima persona, quel suo modo scanzonato e sincero di mettersi a nudo, quell’ironia tagliente che non lo abbandona mai, nemmeno durante le peggiori botte di malinconia, ce lo rendono istintivamente e immediatamente simpatico.
Raramente, dopo Montalbano, mi sono affezionata tanto a un personaggio.

(Monica Anelli)

 

 

L’avvocato Guerrieri è il solito single impenitente, con varie storie d’amore fallite alle spalle, una vita disordinata e molti rimpianti. Un cliché già visto, niente di nuovo. Il fatto che sia un avvocato e non un commissario di polizia o un ex marine in congedo lo rende forse un po’ più originale, ma non lo esonera dagli schemi consueti: grande lettore e amante della musica, carburato a birre, panini, pizze e caffè, ex fumatore, ex marito, solo parzialmente ex ragazzo, nottambulo. Due cose però lo rendono interessante: la prima è che le sue sono vicende concrete, attuali fino a essere quasi quotidiane; la seconda è che a scriverle è uno del mestiere. L’autore, Gianrico Carofiglio, è infatti un magistrato barese. E a Bari si svolge la storia, incentrata su un problema quanto mai scottante: il traffico di droga dal vicino Montenegro.
Fabio Paolicelli, ex picchiatore fascista e incubo dell’adolescenza di Guerrieri, si trova ora per caso a essere cliente dell’avvocato: sotto la sua auto, al ritorno dalle vacanze con moglie e figlia, è stato ritrovato un quantitativo impressionante di cocaina e lui deve convincere i giudici che la roba non è sua e che qualcuno ce l’ha messa a sua insaputa. Guerrieri dovrà aiutarlo a dimostrare la sua innocenza, ma dovrà fare i conti con una giustizia spesso condizionata dalla malavita organizzata, che si insinua pericolosamente tra le maglie della legalità per coprire i suoi traffici. Con metodi non sempre ortodossi ma sempre efficaci, che coinvolgono anche i rapporti umani e sentimentali, questo novello Perry Mason si muove con più perizia sulla scena del foro che su quella della vita e non può non attirare le simpatie del lettore.
Libro molto gradevole, a metà tra una cronaca e un giallo, che ripropone, seppure a basso livello, il problema dei rapporti tra giustizia e potere.

(Paola Lerza)

Salve. Sono un avvocato. Uno dei tanti avvocati di cui si scrive. Volevo dire “di cui si legge” ma il gioco di parole mi è parso infame. Mi chiamo Guido. Vivo a Bari. Separato, anzi, lasciato da poco. Ho sofferto di attacchi di panico. Va meglio, grazie. La mia canzone preferita è Pezzi di vetro, De Gregori. Ma anche Simon and Garfunkel...
In the clearing stands a boxer,
And a fighter by his trade
And he carries the remainders
Of ev’ry glove that laid him down
And cut him till he cried out
In his anger and his shame,
“I am leaving, I am leaving”
But the fighter still remains
Lie-la-lie . . .
Mi piace la boxe. Mi ha aiutato molto, quando Sara è andata via. Non sono un duro, un vincente. Sono uno che lavora.
Tempo fa venne da me una donna, agronoma, di Assuan, Sudan. Mi parlò di un suo amico senegalese, un vucumprà, insomma, accusato dell’omicidio di un bambino di nove anni.
Una storia poco convincente, troppe prove, troppi indizi da parte dell’accusa per un avvocato in crisi. Eppure… Quale extracomunitario nelle sue condizioni avrebbe rifiutato il rito abbreviato, scegliendo un processo con pochissime possibilità di assoluzione? Lui lo fece….
Negli States questo sarebbe un legal thriller. A me sembra il racconto di un caso che ha ridato sapore alla mia vita e a quella di Abdoul.
Ah, non vi ho parlato di Margherita. Vi lascio la curiosità.
Il mare è ancora bello, a Polignano…

(Maria Cristina Rosa)

Lui è Lorenzo, affascinante professore di geografia economica di un istituto professionale milanese noto per la precaria condizione socio-culturale degli studenti che lo frequentano. É il prototipo di insegnante che tutti vorrebbero avere: giovanile, sportivo, desideroso di impartire delle lezioni ai suoi amati allievi, lezioni non solo prettamente accademiche ma veri insegnamenti rivolti a quelle tenere e instabili vite di ragazzi emarginati, soli, abbandonati dalle famiglie o relegati a condizioni di subordinazione dettate da un credo religioso che ancora ai nostri giorni assoggetta la donna all’obbedienza indiscussa verso il padre-padrone o il marito. Lorenzo ha una grande passione per il suo lavoro, tale da fargli condurre la sua attività in un qualsiasi istituto per i meno dotati piuttosto che nel prestigioso Liceo a cui era stato inizialmente destinato e per il quale si è dimostrato candidato eccellente fin dagli esordi della sua carriera. Lorenzo è amabile, premuroso, bellissimo e sempre presente per i suoi ragazzi, per la sua famiglia e per quella donna che dopo tanti anni di solitudine è riuscita a ridare coraggio al suo animo troppo guardingo verso l’incomprensibile esperienza dell’amore. Lei è Fiamma, il cui nome non a caso dipinge i tratti molto femminili, sensuali di un corpo non più giovane ma ancora stupendo. È una donna intelligentissima e impegnata attivamente nel suo lavoro presso una casa editrice cui è legata da un profondo legame che risale alle storiche amicizie con i suoi fondatori. È madre premurosa e nuova compagna di quell’uomo virtuoso che la riempie di attenzioni e di amore. Entrambi oltre la soglia dei quarant’anni hanno riscoperto il valore della fiducia e dell’abbandono reciproco. Accomunati da un passato inquieto a causa dei rispettivi matrimoni difficili, adesso Lorenzo e Fiamma ricominciano a fidarsi dell’amore e dell’imprevedibile viaggio della vita che li trascina in luoghi nuovi, avvincenti, stimolanti e appassionanti. Tutto questo, sotto la costante pressione di una società che investe troppo poco sull’educazione scolastica e troppo su docenti da manuale e poco consapevoli della realtà dei loro studenti, ragazzi impossibilitati a lottare per il raggiungimento dei loro propositi oppure l’esatto contrario, ragazzi cresciuti nell’ovattato sistema di certezze che alla lunga smettono di stimolare la loro creatività. Il romanzo si presenta pertanto come un elogio alla scuola intelligente, un viaggio nei tortuosi sentieri delle amicizie, dei rapporti coniugali, ma è anche un trionfo dell’amore sincero e rispettoso della libertà altrui. È un’appassionante storia di un uomo e di una donna innamorati della conoscenza, della curiosità che spinge oltre i propri confini e offre uno spaccato sociale di un’Italia in piena crisi di valori, da quelli matrimoniali a quelli culturali, che affondano le loro radici già nell’istituzione sui banchi di scuola verso la disistima di un futuro ottimale. Come i nostri protagonisti, anche la scrittrice, Sveva Casati Modignani, non si arrende alla sfiducia ingenerata da un matrimonio fallito o da una sconfitta lavorativa, ma offre la possibilità del cambiamento nell’ottica di un impegno sociale e personale che creda ancora nell’educazione, nella scuola, nel lavoro e nell’amore… quell’Amore da dieci e lode!!

(Elisabetta Pandolfo)

È un romanzo semplice “La ragazza di Bube”; semplici e umili sono i personaggi, essenziali, a volte quasi banali i dialoghi, come pure i sogni della protagonista, addirittura semplice la sua tragicità.
Una Toscana come sempre spettacolare e l’immediato dopoguerra fanno da sfondo a una storia d’amore pura e, a modo suo, romantica.
Mara è ancora una ragazzina quando s’innamora del partigiano Bube, arrivato per caso un pomeriggio con una pezza di seta gialla in dono. È un amore nato quasi per gioco, per un paio di scarpe con il tacco o poco più. Quasi inconsapevolmente, Mara si ritrova fidanzata con il partigiano di pochi anni più grande di lei, ma che ha già un passato tormentato da vicissitudini non del tutto chiare. Lo strano fidanzamento è sostenuto dal padre di lei, comunista rivoluzionario, e osteggiato dalla madre, indurita dalla morte del figlio, compagno di Bube.
Siamo negli anni confusi del dopo Liberazione e gli eventi trascinano Mara in una storia molto più grande di lei che, a poco a poco, da marionetta del destino diviene vera e propria protagonista, lei che sognava semplicemente una borsetta nuova, una casetta piccola ma pulita, un maschietto e una femminuccia.
Passano gli anni, e la ragazzina che aspettava il ritorno del suo Bubino, colei che per un sogno di gioventù ha rinunciato ad un futuro migliore, oramai si è fatta donna…
Quella che ci accompagna alla fine del romanzo è una donna coraggiosa, che ha saputo far maturare il suo amore crescendolo sulla fatica della lontananza, sulla struggente rimembranza dei pochi istanti di tenerezza realmente vissuti.
A distanza di più di quarant’anni dalla sua pubblicazione “La ragazza di Bube” rimane indubbiamente una lettura piacevolissima.

(Fanny Grespan)

 

Sandro Bulmisti, docente di estetica, negli ultimi tempi si è dedicato anima e corpo all’enigmistica e ha fondato una rivista, “I torni contano”. Improvvisamente è scomparso nel nulla. Se ne preoccupano, ma nemmeno troppo, i suoi colleghi e discepoli. Casualmente il giovane Ludovico, appassionato anche lui di enigmistica, acquista su una bancarella una copia della rivista e scopre che il professore ha lasciato un enigma in versi, una traccia che dovrebbe portare a lui. In realtà la verità da scoprire non è tanto il “dove” ma il “perché”. La caccia al tesoro porta il ragazzo a indagare in fatti accaduti prima della sua nascita, negli anni di piombo, in dolorose tragedie pubbliche e private, nella letteratura e nel cinema degli anni ’70. Uno spunto stimolante, un’idea avvincente, che forse si sarebbe potuta sviluppare meno frettolosamente e con maggiore attenzione alla logica del racconto e alla caratterizzazione dei personaggi. Tuttavia il meccanismo narrativo funziona e il racconto si legge con piacere. Basta non far caso, se ci si riesce, ai troppi punti esclamativi di cui Cerami costella i suoi dialoghi e alla strana, non si sa quanto ironica, idea di intrufolarsi in prima persona nella storia tra gli scrittori dell’epoca, piazzandosi senza alcun pudore tra Bertolucci e Pasolini.

(Daniela Borsato)

                                                      

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