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Ho acquistato questo libriccino da un ragazzo senegalese che collabora al Progetto di strada di “Terre di mezzo” (www.terre.it), un giornale distribuito di proposito solo sulla strada e i cui venditori sono immigrati che desiderano integrarsi in modo legale nel nostro Paese.
È la storia vera di un suo connazionale e collega incarcerato per cinque mesi in attesa di processo perché accusato di violenza sessuale ai danni di una minorenne, reato per il quale lui si è sempre proclamato innocente.
I fatti risalgono a tre anni fa; M. (la sua identità rimane segreta, per ovvi motivi…) racconta la sua esperienza di detenuto straniero in un paio di carceri italiane dove l’indifferenza e la violenza sono all’ordine del giorno, soprattutto nei confronti di chi, accusato di un reato quale la violenza sessuale, ha l’aggravante della pelle di un colore diverso. Il diario di M., scritto in un italiano stentato - volutamente lasciato nella forma originale, corretta e integrata il minimo indispensabile laddove diversamente il testo sarebbe risultato incomprensibile - ci comunica tutto il suo senso di straniamento per quella nuova dimensione nella quale regnano l’indifferenza, l’umiliazione, il sopruso e la tortura. Eppure, da parte sua, non c’è mai una parola di odio o di violenza: solo molto dolore e una domanda ricorrente: “È così la legge italiana?”
Il testo del diario è integrato da un’introduzione di Miriam Giovanzana, il datore di lavoro che, insieme con tutta la redazione di “Terre di mezzo” e i suoi tanti sostenitori, ha lottato perché M. avesse tutta l’assistenza legale, morale e affettiva di cui ha avuto bisogno, da una nota del curatore Silvia Melloni e da un’intervista allo stesso protagonista.

(Monica Anelli)


 

 

Uno studioso di migrazioni animali sta seduto su una cima nel deserto dell’Hoggar: attende il passaggio delle rondini insieme al popolo Tagil, nello stesso luogo in cui aveva vissuto il monaco père Foucauld. Parla con la sua guida Jibril, apprende dai Tagil il valore della nuda bellezza; e intanto racconta di altri luoghi, di altri popoli e migrazioni. Così conosciamo l’orsa Amapola, fuggita dalle foreste della Bosnia sulle montagne della Carnia, l’armeno Zingirian, compagno di viaggio nell’orrore di Tuzla assediata, una misteriosa donna, la Perfetta, che lui ama senza conoscerla veramente.
Lo scrittore ci presenta un’abile miscela di mistero e realtà, con tutti gli ingredienti giusti per affascinare il lettore: il viaggio, il deserto, la guerra, l’amore, la morte. L’operazione però non è sempre riuscita e spesso sembra troppo studiata a tavolino, secondo me. Alcune pagine tuttavia sono bellissime: non sarà facile dimenticare il funerale notturno dei settanta ragazzi di Tuzla uccisi da una granata durante la loro festa.

(Daniela Borsato)

 

1967.Un bambino guarda il mare sul molo del porto di Tripoli. Sulle rive del Mediterraneo si è svolta tutta la storia della sua famiglia, da quando è stata cacciata dalla Spagna nel 1490, insieme a tutti gli ebrei. “Negli ultimi 500 anni nessuno, nella mia famiglia, è morto nella città dove è nato.” I Cordoba conservano e tramandano fedelmente la loro lingua, il djudeo-espanyol, le tradizioni, la cucina. Tuttavia sono aperti al mondo: il ragazzo frequenta la scuola italiana, ma studia l’arabo e l’inglese, ha amici di tante provenienze, lingue, religioni. Un lungo flash-back riporta la vicenda ai tragici eventi della seconda guerra mondiale, alla storia di zio Leon e della fiera Ester, che lo lascia per andare a vivere e combattere in Israele. Proprio la nascita dello stato d’Israele sarà la miccia che fa scoppiare il conflitto latente tra le comunità: le tensioni con gli arabi sfociano in persecuzioni, violenze, massacri, fino all’espulsione degli ebrei dalla Libia dopo la guerra dei sei giorni. La famiglia Cordoba sceglierà l’Italia. E questo sembra segnare la fine di una civiltà cosmopolita che per secoli ha mescolato lingue, culture, sapori, sulle rive del Mediterraneo. È una storia complessa, difficile da sintetizzare, ricca di eventi e personaggi. Vi si può leggere la difficoltà e insieme la necessità di stabilire ponti tra passato e presente, tra popoli e culture diverse. Ma vi si legge anche la speranza che sia possibile nonostante tutto difendere la diversità, l’identità, senza contrapporsi e senza odiarsi. Una storia di molte storie, molti pensieri, molte verità: sono arabi coloro che minacciano la vita dei piccoli ebrei all’uscita dalla scuola, ma è arabo anche il vicino che rischia la vita per salvarli. Un’ultima amara riflessione: i protagonisti del romanzo guardano all’Italia, alla sua letteratura, alla musica, al cinema, e infine la scelgono come nuova patria. Ma gli italiani hanno ignorato e ignorano tutto di questa vicenda.

(Daniela Borsato)

In una Parigi grigia e ostile, ben lontana dagli splendori del lusso e della vita mondana, il sole non splende per quei derelitti che nella capitale tentano di sopravvivere con vagabondaggi ed espedienti. E’ un universo di emarginati, un sottobosco metropolitano quello presentato dall’autore in questo libro straziante e scomodo; molti di loro sono minori, come il protagonista André Arnal, un sedicenne costretto a crescere troppo in fretta da una situazione di abbandono e di povertà. Le strutture sociali si rivelano del tutto inadeguate anche solo per tentare un recupero morale e umano: indifferenza, corruzione, brutalità non fanno che accentuare la spirale di degrado inarrestabile dalla quale André si troverà sopraffatto.
E’ un libro dai toni crudi e violenti, che propone un quadro impietoso delle miserie metropolitane, puntando implicitamente un dito accusatore sulle responsabilità della gente “normale”, quella per la quale, invece, il sole continua a splendere.

(Paola Lerza)

 

È la storia di una grande e vera amicizia tra due uomini diversi per nascita, educazione, carattere e stile di vita, due uomini uniti e divisi dall’amore per la stessa donna: moglie di uno ed amante dell’altro. Dopo 41 anni e 43 giorni da quando le loro vite hanno preso strade opposte ed essi si sono separati proprio a causa di questo amore, tornano ad incontrarsi  per la loro ultima cena insieme, proprio nel castello in cui si è svolto il comune dramma d’amore. Entrambi hanno atteso per anni questo momento, per chiarire fra loro ciò che non era mai stato detto a parole ma che entrambi sapevano. Il fantasma della donna tanto amata da entrambi, che pagherà con l’esilio e la morte la colpa di aver amato due uomini, si innalza tra loro, come causa di un silenzioso ed ultimo “duello senza spade”. Chi ha tradito chi? È più cocente sapere di essere stati traditi dalla propria sposa o dall’amico di una vita? Alla fine, come dice uno dei due, ”ha importanza solo ciò che rimane nel nostro cuore”: cioè il legame, l’attrazione, la passione provata per la stessa donna cui entrambi sono sopravvissuti e della cui morte sono entrambi colpevoli, perché entrambi hanno rinunciato a lei, l’hanno abbandonata proprio in nome della loro amicizia. Di particolare effetto è la tecnica narrativa adottata dall’autore; l’andamento un po’ lento della tradizione del romanzo mitteleuropeo cambia bruscamente nell’incontro fra i due uomini: i tempi cambiano dal passato al presente, tutto si fa immediato, vivo. Ai dialoghi e alle descrizioni si sostituiscono lunghi e accorati monologhi del marito tradito due volte, che ha atteso questo momento per una vita intera. Con questo libro struggente ed intenso l’autore, le cui opere furono bandite dall’Ungheria per decenni, ci trasporta in un mondo lontano dal nostro  e nello stesso tempo vicino, perché i sentimenti veri sono sempre gli stessi, in qualunque luogo ed in qualunque tempo. Sempre ed ovunque, ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta è forse proprio la fortuna di provare con intensità una grande passione, o di avere un ideale, indipendentemente dalla sua realizzazione: tenere nascosta nel proprio cuore una fiamma con cui scaldarsi e sognare.

(Gabriella Nasi)

Sette anni (dal 1988 al 1995) raccontati attraverso lettere spedite da una drammaturga ormai cinquantenne, Vera, ad una bambina appena di sei anni all’inizio del romanzo, Flavia.
Una sequenza di lettere a senso unico, in cui la donna ritesse le fila del suo rapporto d’amore, ormai finito, con Edoardo, zio di Flavia. Un idillio che merita di essere riassaporato nel racconto epistolare. Un rapporto che non si esaurisce nella relazione a due ma che si allarga alle relazioni con la famiglia dell’amato di cui la protagonista serba, in fondo, un piacevole ricordo.
Alla vicenda amorosa si intrecciano, infatti, ricordi di vita familiare, momenti di tenerezza, di sofferenze e di passioni raccontati in un’atmosfera vacillante tra la realtà del presente e il desiderio del passato.
Perché l’autrice abbia scelto la forma epistolare per il racconto, credo sia nascosto nel libro stesso: nell’episodio in cui la bambina si definisce “lettera” nel senso di epistola, per comunicare con lo zio.
Il senso di una corrispondenza epistolare, che a volte assume toni seri e tristi, tra una donna cinquantenne ed una bambina pone degli interrogativi, ma le risposte andranno cercate in ciò che il libro susciterà in ogni lettore o lettrice.

(Teresa Ducci)

 

 

Una donna siciliana del XVIII secolo, anche se nobile, aveva ben poche chances di autoaffermazione e di realizzazione sociale. Figuriamoci poi se era anche sordomuta: una menomazione che l’avrebbe tagliata fuori da qualunque contatto interpersonale basato sulla parola, se non fosse stato che lei, la duchessa Marianna Ucrìa, in quanto nobile aveva avuto almeno l’opportunità di imparare a leggere e a scrivere. Un’operazione macchinosa e faticosa a quei tempi, perché per comunicare doveva portarsi sempre dietro tutto l’occorrente: tavoletta, fogli, piuma d’oca, boccetta dell’inchiostro e cenere per asciugarlo… il tutto legato con una catenella in vita, come un bagaglio permanente che la collegava col mondo.
Così, sempre composta e vigile nel suo silenzio, la duchessa Marianna vive in punta di piedi, obbedendo con remissione alla volontà del “signor padre”, che adora, e della “signora madre”, languidi esponenti di una classe sociale improduttiva, preoccupata unicamente di combinare matrimoni a tavolino per non “sporcare il sangue” e preservare il patrimonio di famiglia. Famiglia numerosa da sempre, quella degli Ucrìa, perché mettere al mondo tanti figli è l’unico dovere di una nobildonna: è necessario infatti che ci sia almeno il primo maschio, erede universale, (e se una donna non è in grado di far maschi naturalmente la colpa è sua), qualche figlia da mandare in sposa in modo conveniente e qualcun altro da consacrare alla Chiesa, non importa se in presenza o no di vocazione. A Marianna, per decisione del “signor padre”, tocca in sposo uno zio di una quarantina d’anni più anziano di lei, che lei sposa senza obiettare e senza ben capire, a soli tredici anni, che destino la attende. E avrà anche lei la sua bella schiera di figli, messi al mondo per dovere e non per piacere, cedendo ogni volta agli assalti rapaci del “signor marito zio”, per il quale il dovere coniugale consiste solo nell’appagamento dei suoi appetiti sessuali.
In queste condizioni Marianna può solo imparare ad “ascoltare” i pensieri di chi la circonda e la sottovaluta come “povera mutola”; come quasi tutte le nobildonne del suo tempo non conosce l’amore e ignora i piaceri del sesso finché non sono loro a cercare lei, ormai vedova, nella persona di un giovane servitore, che seppure per un breve periodo la fa sentire donna e viva. Ma siamo nel Settecento, e le convenzioni sociali sono ancora più forti della passione; così Marianna dovrà troncare, andar via, ma almeno sarà libera dall’oppressione derivante dal suo ruolo di padrona e dall’ombra soffocante della sua famiglia. Anche perché quella famiglia nasconde un segreto terribile ed è responsabile della sua menomazione, che non è affatto congenita: Marianna scopre di essere diventata sordomuta da piccola, a causa di uno stupro subìto a quattro anni proprio da quel “signor marito zio” che sarebbe poi diventato il padre dei suoi figli.
La Maraini scrive in modo delicato, con notevole sensibilità verso l’ambiente storico di riferimento e verso la cultura e la mentalità dei personaggi, oltre che verso l’animo femminile. Ne risulta una lettura scorrevole che ci proietta gradevolmente nel passato.

(Paola Lerza)

Questo è il primo romanzo di Paola Mastrocola, a cui sono seguiti “La barca nel bosco” e “La scuola raccontata al mio cane”. Ma è quello che preferisco. L’autrice, insegnante di liceo, ha le sue personali e discutibili opinioni sulla scuola, i suoi ultimi libri sono un po’ troppo “a tesi”. Questo invece è un divertimento dall’inizio alla fine. La protagonista è Carla, un’insegnante di lettere, con due figli e un marito che insegna matematica ed è assorbito dal computer. Carla ha una passione e un sogno: far volare le galline. E lo persegue molto seriamente e scientificamente. Parallelamente alle vicende del pollaio si svolgono quelle scolastiche. Anche qui Carla persegue sogni impossibili: niente a che vedere con obiettivi, programmazioni, valutazioni e tutto il “didattichese” che questo libro sbeffeggia ferocemente. Collegi docenti, lezioni, interrogazioni, colloqui con i genitori, sono raccontati con sguardo divertito ma anche un po’ amaro. E amara è la conclusione: Carla riuscirà a far volare le galline, ma non a salvare da una fine stupida e volgare l’unica allieva che sembrava aver capito e condiviso il suo sogno.
"Ragazzi, oggi vi spiego le virgole." Lo so, loro pensano: "Che insegnante originale! spiega le virgole ai ragazzi di sedici anni", ma non è così, è che non ne posso più. Non ne posso più di mettere io le virgole ai loro temi. Mediamente ho classi di venticinque ragazzi: mediamente metto una cosa come dieci virgole per tema: dunque, in tutto, a ogni compito in classe metto almeno duecentocinquanta virgole. Non so se riesco a esprimere l'abissale malessere che mi prende: per me una virgola è tutto, è il sale della vita, il bastone della vecchiaia, il succo della storia, il nocciolo della questione, il fulcro, il centro, il buco nero, l'origine, l'utero… Una virgola che manca è l'abisso che mi si scava ai piedi, mi sento svenire, capogiro, nausea. Ma non è un problema personale: è un disastro cosmico, che dovrebbe riguardare tutti. Le virgole sono l'impalcatura del mondo, se mancano il mondo crolla, come un soffitto non puntellato, un cemento non armato.

(Daniela Borsato)

Una separazione non è solo la fine di un amore, è l’amarezza, la frustrazione, il senso di rabbia, la voglia di ferire l’altro che ogni disfatta si porta con sé.
Delia e Gae si ritrovano una sera a cena in un ristorante con la speranza forse di ricucire una separazione appena avvenuta, ma con la consapevolezza che ormai il tempo del loro amore è finito.
Ciascuno, a modo suo, ripercorre la vita della coppia; l’amore, la passione, i desideri, i sogni, le fantasie, le nevrosi, la vita quotidiana, le trasgressioni pensate e vissute, i figli, le speranze, le illusioni, la realtà emergono dal quadro dei loro pensieri per divenire, solo a tratti, parole di un dialogo, ove sovente sembra che non tutto sia stato detto o compreso.
Buono il tratteggio psicologico dei due personaggi, resta la crudezza di un linguaggio un po’ forzato e gratuito, spesso anche volgare, che langue tutto in superficie creando l’impressione di non riuscire o di non volere irrompere all’interno.
Una storia dei nostri tempi, con un finale inconsueto, da soap opera. Bisogna arrivare alla fine del libro per capirne il titolo, ma ormai è troppo tardi.

(Lucia Bartoli)

 

 

“Se andassimo via adesso nulla di ciò che verrà sarebbe…” Quante volte il nostro e l’altrui futuro dipendono dalla scelta, o non scelta, di un attimo, in un certo luogo e in un certo tempo, dal concatenarsi di piccoli eventi impercettibili.
L’ultimo romanzo della Mazzantini, 529 pagine da leggere d’un fiato, ci mostra come la vita sia sempre imprevedibile, come i destini si uniscano e si separino, come nulla sia, spesso, ciò che appare. Può essere definito un vero e proprio thriller sentimentale per i colpi di scena che si susseguono nella lettura, lasciandoci avvinti ad essa.
Come accennare alla trama senza far venir meno quello che è, forse, il carattere più importante di questo libro pieno di sorprese? Dirò soltanto che le vicende si svolgono lungo l’arco di due decenni: nascono nella vecchia Iugoslavia che vedeva convivere generazioni di cultura, lingua e religioni diverse; hanno il loro climax nella guerra che potremmo considerare “civile” fra serbi e croati, nel frantumarsi della nazione comune; trovano l’epilogo, con i protagonisti, nella nuova Sarajevo, in cui chi è sopravvissuto porta comunque con sé dolore e sconfitta. Qui si rincontrano le due donne-madri legate da un destino che le unisce nella figura di Pietro, quello che potremmo definire il figlio comune, nato dal bisogno di maternità negata di Gemma, da uno stupro di guerra compiuto su Aska, dal rimorso e dal senso di colpa di un padre mancato, Diego, dalla generosità e dall’amore disinteressato di un padre putativo, Giuliano.
È quindi, forse e soprattutto, un libro sulla maternità e su ciò che significa essere figli e genitori. Soprattutto, è un romanzo scritto da una donna-moglie-amante-madre che sa, sulla propria pelle, cosa significa convivere ogni mese con la propria femminilità e con il rituale quasi sacro del ciclo mestruale atteso con ansia o con paura, tatuaggio simbolo del corpo che è aperto alla vita, poiché le mani di una donna sanno sempre sporcarsi, nella vita e per la vita, di sangue, sudore, sperma, merda, mentre per gli uomini ciò accade, forse, soltanto in guerra e al momento della morte. È un romanzo bellissimo, per me un inno alle donne.
È anche un romanzo storico, che ci riporta (era solo due decenni fa) ad una guerra nata, forse, per difendere il diritto di una minoranza, una “guerra impossibile” come si crede e si spera siano tutte le guerre, che poi si allarga fino a trascinare con sé, come un contagio di peste, ”giusti e peccatori”, stravolgendo e corrompendo anche l’animo dei più puri, poiché l’odio non può fare altro che generare odio e ancora odio.
Ma è anche un romanzo d’amore, d’amore fraterno, filiale, genitoriale, sensuale, d’amore gratuito, per dimostrare che solo questo sentimento può aiutarci a vincere l’orrore.

(Gabriella Nasi)

Un fatto di cronaca, di quelli che i giornalisti pigri definiscono inevitabimente “sordido”. Un dramma familiare come tanti altri. Ma prima, in quell’ultima lunghissima giornata che precede la tragedia (che il nostro solito giornalista pigro definirebbe “annunciata”), i personaggi della storia vengono seguiti uno per uno, minuto per minuto, nei loro diversi percorsi. Antonio, poliziotto di scorta a un uomo politico, non riesce ad accettare la fine del matrimonio con Emma e la perdita dei figli. Emma si arrabatta tra lavoretti precari e improbabili sogni di successi canori, cerca come può di proteggere i figli Valentina e Kevin da Antonio, geloso e violento, ma anche lei in fondo non riesce ad accettare la fine di quel loro amore. Elio, deputato in procinto di perdere le elezioni, dopo aver perso il favore del potente di turno. Sua moglie Maya, misteriosa ed inquieta, suo figlio, il ribelle disilluso Zero. La piccola tenera Camilla, che compie sette anni e decide chissà perché proprio quel giorno di sposare Kevin, bruttino ed emarginato. Sasha, insegnante gay di Valentina e il suo assurdo solidale incontro con Emma. Personaggi seguiti con affettuosa ironia nel loro faticoso arrancare, verso un finale che in fondo potrebbe essere diverso, basterebbe poco per cambiare tutto. Una storia dei nostri giorni, scritta con tecnica cinematografica, per essere letta di corsa, con l’antica e sempre valida molla del “voglio vedere come va a finire”, ma anche con partecipazione e pietà per questi “vinti” del nostro tempo.

(Daniela Borsato)

 

Arrivano dal mare, su barconi e gommoni, in cerca di una vita migliore e, troppo spesso, in cerca di una nuova esistenza. Incontrano il dolore, si perdono nella miseria della strada, diventano ladri e prostitute. È la vita degli immigrati di oggi, ma è stata anche quella dei nostri italiani, emigranti nel primo Novecento. È l’esistenza di Vita e Diamante, due bambini imbarcati su una nave che va in America, nel 1903. Cresceranno insieme, legati da qualcosa di più forte dell’amore e della passione, da qualcosa che andrà oltre la loro stessa vita. Si scontreranno con la mafia e con il mondo crudele e spietato di una America che promette molto, ma che molto richiede per sopravvivere alle sue leggi. Saranno divisi dal destino, ma resteranno per sempre uniti attraverso il tempo e lo spazio dal sentimento che provano e dal nome dato ai loro figli. E, come sempre accade, sarà la donna, Vita, dopo quarant’anni, a ricercare l’uomo tornato in Italia, per un ultimo incontro in cui le parole, inutili e vuote, faranno solo da sfondo all’intensità degli sguardi. Invito a leggere questo libro, basato su testimonianze vere, per ritrovarci nelle “ombre” che attraversano con noi la strada, che ci fermano ai semafori, che parlano un italiano stentato.

(Gabriella Nasi)

Mc Court ha pubblicato il suo primo romanzo, il fortunato “Le ceneri di Angela”, a 66 anni, il secondo, “Che paese l’America”, a 69. Di questo si stupiscono i suoi colleghi più giovani: come mai così tardi? Ed ecco la risposta. Per trent’anni Mc Court ha fatto l’insegnante d’inglese nelle scuole superiori di New York. Centinaia di studenti, migliaia di compiti da correggere, ore ed ore passate nel tentativo di tener testa a orde di adolescenti riluttanti, spesso sgradevoli od ottusi. Le frustrazioni, le delusioni, il divertimento, la fatica di insegnare, i rari momenti che illuminano questo mestiere sono raccontati con irresistibile autoironia: il professor Mc Court si descrive come un insegnante spesso smarrito e incapace, sopraffatto dalla difficoltà di arrivare ai ragazzi, continua a rievocare storie tragicomiche sulla sua infanzia infelice in Irlanda, sembra far lezione in modo casuale, quasi stupito quando invece la magia riesce e la comunicazione passa, magari a partire da una ricetta di cucina o da una giustificazione falsificata. Benché la scuola americana sia molto diversa dalla nostra, credo che molti insegnanti si riconosceranno in queste storie di scuola e di ragazzi, molte divertenti, qualcuna tragica, tutte indimenticabili, raccontate con grande leggerezza e senza nessuna retorica.
“ Ehi professore. Lei dovrebbe scrivere un libro, sa?”

(Daniela Borsato)

Bambini che scompaiono. Adulti che si rivedono bambini. Adulti che vogliono tornare bambini. Adulti impegnati in assurde discussioni sull’educazione dei bambini. L’infanzia come luogo del mito. Infanzia che ritorna come un incubo. Infanzia felice da rivivere oltre ogni limite ragionevole, fino a morirne.
Il protagonista è uno scrittore casualmente giunto al successo con un racconto per ragazzi, al quale accade quello che ogni genitore ha vissuto come l’incubo più straziante: la scomparsa misteriosa e inspiegabile di una figlia. Alla sua vicenda, alla fine inevitabile del suo matrimonio, alla sua ossessiva ricerca della bambina, si intrecciano altre storie: un misterioso salto temporale all’indietro per ritrovare i suoi genitori giovani, l’atroce parabola di un amico, politico di successo, che si annulla nell’impossibile folle ritorno all’infanzia, infine la faticosa rinascita del rapporto con la moglie e una sorpresa finale.
Un libro ricchissimo di spunti, scritto con passione meticolosa, acuto nell’indagine di sentimenti e idee. Volutamente discontinuo nei toni, passa dal sarcastico al tenero con grandissima abilità. Irresistibili i demenziali dibattiti della commissione ministeriale sull’educazione, il ritratto del primo ministro, l’incidente in cui un camionista, in realtà illeso, detta a ripetizione ultime volontà. Eccessiva, secondo me, la “melassa” finale.

(Daniela Borsato)

Un giorno d’estate in una villa inglese, alla vigilia della II guerra mondiale. Un tempo sospeso, quasi fermo, in cui per molte pagine sembra non succedere niente. Così ci attardiamo pigramente tra le velleità letterarie dell’adolescente Briony, le inquietudini della sorella maggiore Cecilia, il fascino di Robbie, l’antipatia della cugina Lola, la tenera infelicità dei due gemellini Pierrot e Jackson. E poi il fratello maggiore Leon e il suo amico Paul. Il tempo sembra scivolare in un’attesa irrequieta, che prefigura l’attesa della guerra. Improvvisamente tutto precipita. Nel giro di poche pagine assistiamo ad una scomparsa, uno stupro, una terribile accusa che cambierà la vita di tutti. Passano gli anni e la scena si sposta a Dunkerque, dove Robbie cerca disperatamente di sopravvivere alle ferite, alla fame, agli incubi, per poter tornare da Cecilia. Intanto Briony è diventata infermiera, un lavoro massacrante tra gli orrori dei feriti di guerra, un tentativo per purificarsi da una colpa che solo ora, adulta, comprende fino in fondo. La vita le dà un’altra possibilità, ma sarà dura e difficile.
Personaggi ben costruiti, una scrittura nitida, precisa, una storia appassionante. Ma secondo me l’autore dà il meglio di sé quando descrive dettagli apparentemente secondari. Io ho trovato particolarmente godibile il racconto della vita delle infermiere inglesi: il lettore italiano di oggi, magari reduce da un’esperienza nei nostri ospedali, ad un certo punto si trova a desiderare di essere accudito da queste instancabili, efficientissime, impeccabili fanciulle.

(Daniela Borsato)

 

Fumavo girando la testa, tac a destra, tac a sinistra, senza guardare davanti a me, senza vedere. Pioggia e vento, il fiume. E Charlie. Non so perché non gridai. Perché avrei dovuto gridare? Non fu quello il momento peggiore, per me. Non lo furono neppure i sonniferi nascosti sotto il cuscino, nell’ospedale all’interno del Muro. Fu prima. Fu il ritorno a casa dopo la fuga da Edgar. Lo avevo conosciuto in occasione del ballo dell’ ospedale. Io ero la moglie del vicedirettore. Indossavo un vestito da sera nero, scollato, di seta grezza, raffinatissimo. Era aderente sul busto e formava, scendendo, una corolla, con uno spacco in mezzo. Avevo uno scialle sulle spalle e ai piedi tacchi vertiginosi. I miei capelli, biondi, quasi bianchi, illuminavano il mio sguardo. Apparivo fredda, quasi altera. Così mi vide Edgar. Lo stesso vestito che indossai l’anno successivo. Con apparente noncuranza, con un falso gesto di sfida, volli lo stesso abito dell’anno precedente. Il mio abito nuziale. Senza Edgar. Per Edgar. Non ero più la moglie del vicedirettore. Ero un’interna, una paziente. Non riesco a formulare un pensiero in cui Edgar non sia soggetto o oggetto. Dovete prendere il libro, se volete saperne di più. Peter  era convinto di fare un bel lavoro analitico, con me. Peter, il direttore, lo psichiatra, il collega e l’amico di mio marito Max. Sono figure indistinte, difficili da focalizzare, non so dire altro di loro. E Charlie… Dovrei parlare di Charlie, del mio bambino… È così difficile ora… Peter è convinto di avere il possesso di tutto. Ha tentato ed è convinto di esserci riuscito. Nonostante abbia ormai capito che le mie risposte erano solo le studiate, precise, beffarde conferme che cercava. Povero Peter, egli non sa quale limite abbiano le parole. E anche i corpi. Non ci avrà mai. E non vi ho parlato di amore…

(Maria Cristina Rosa)

Ancora una volta l’autore di “Follia” ci trasporta nel mondo dell’inconscio e dell’irrazionale, in quell’universo - in parte scientifico e in parte legato al mistero della mente umana - in cui si muovono gli psichiatri e i loro pazienti.
Cosa spinge il protagonista, stimato psichiatra, a trovarsi sempre “invischiato” in storie contorte, a specializzarsi nella cura di chi è sopravvissuto ad un trauma, come può essere per i reduci dalle guerre, a rendersi oggetto e a essere manovrato dalle donne di cui si innamora? Cosa è avvenuto nel suo passato, qual è stato l’avvenimento che ha rimosso, ma che torna ad impedirgli di vivere la propria vita, portandolo a sentirsi sempre colpevole e fuori luogo e a punirsi oltre ogni limite? Cosa si nasconde dietro il suo rapporto morboso con la madre, che lo induce ad allontanare le donne che vorrebbe amare? Qual è il rapporto fra amore ed odio, vergogna e risentimento, intelligenza e pazzia? Per quale dannato incantesimo tutti coloro che, in qualche modo, vengono a contatto con lui finiscono per suicidarsi?
E la scoperta del proprio trauma, finalmente, lo guarirà o lo farà definitivamente impazzire?

(Gabriella Nasi)

 

                                                      

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