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"La bambina che non esisteva" è la storia avvincente di Samira, che nasce in Afghanistan, là dove nascere femmina è solo fonte di vergogna e dolore: per questo, in un momento di tenerezza, è "accettata" dal padre come Samir, il maschio atteso.
Cresce sotto lo sguardo colmo di disperata passività della mamma, imparando a cavalcare, a lottare, a cacciare, rendendosi speciale agli occhi di molti. Speciale per la sua doppia identità, che mostra un Samir vigoroso e coraggioso, ma con un animo delicato, tenero e forte: quello che solo le donne sanno avere: l'animo di Samira.
Quando il padre muore, dopo avvincenti vicissitudini che vedono Samir-Samira uccidere un violentatore della mamma, la giovane prova i primi palpiti d'amore e scopre che l'amore vero è privo d'identità sessuale: ama Bashir, un amico della sua infanzia, e la sorella di lui, ma a questo punto, dopo aver conosciuto la passione, Samira legge nel profondo del suo cuore e fa l'unica scelta possibile, una scelta di coraggio e libertà che vuole far riflettere sulla condizione drammaticamente dura delle donne afghane.
"Daria non vuole che nelle altre tende sentano. Soffoca il grido in gola...
- Hai visto?- chiede al marito - È soltanto una femmina..."

(Enza Ferrigno)

 

 

Anni ’20, inizio dell’era fascista: a Fontamara, un paesino sperduto dell’Appennino abruzzese, una comunità di “cafoni” vive di stenti, tra la lotta quotidiana con una terra ingrata e i soprusi di una classe dominante che si fa sempre più cinica e sfruttatrice. I cafoni, che un tempo erano piccoli proprietari terrieri, adesso sono spesso costretti a fare i fittavoli o peggio ancora i braccianti a giornata per dei latifondisti senza scrupoli che si accaparrano con l’inganno le loro terre. Isolati dal resto del mondo e immersi in un’ignoranza secolare alla quale il regime si guarda bene dal porre rimedio, i cafoni sono le vittime innocenti e inconsapevoli, se non addirittura i capri espiatori, di una serie di prepotenze perpetrate ai loro danni in nome della legge. Una legge gestita da imprenditori spregiudicati, parolai e servi del potere che giocano sull’abuso e sulla povertà intellettuale della gente per raggiungere i loro scopi. Anche Don Circostanza, l’ “amico del popolo”, è in realtà un bieco profittatore, un ipocrita doppiogiochista che persegue solo interessi personali e alimenta le illusioni di chi, ingenuamente, gli si affida. Non esiste futuro per la comunità di Fontamara; non esiste possibilità di riscatto dalla miseria e dall’ignoranza. Anche l’emigrazione, sogno di molti, viene bloccata da nuove disposizioni, e una miriade di ostacoli burocratici di ogni genere riconduce tutto a un deprimente circolo vizioso. A Fontamara la vita non è amara: è impossibile. Narrato mirabilmente in prima persona dai membri di una stessa famiglia – il padre, la madre, il figlio -, il romanzo offre i vari punti di vista – quello maschile, quello femminile, quello giovanile -, tutti però coincidenti nell’ammissione di una sorte ineluttabile. Ogni iniziativa è destinata al fallimento e quella domanda - che fare?- pragmatica, reale, impellente, che chiude il libro, resta tristemente senza risposta.

(Paola Lerza)

 

Ricordo di aver letto e riletto questo libro più volte. Mi aveva appassionato per le sue descrizioni ambientali e storiche (la Cina degli anni ’20) e per la sua storia di adulterio, amore e riscatto. Lo trovo, per certi versi, simile a Madame Bovary: anche qui una giovane donna inglese accetta un matrimonio “combinato” con un medico e parte con lui per la lontana Cina. Anche qui la noia di chi non ha nulla da fare (né lavoro in casa, né fuori casa) spinge la donna tra le braccia di un amante qualunque, che si rivelerà un vigliacco. Ma la scoperta occasionale del tradimento da parte del marito porterà ad un cambiamento totale di vita: in cambio del silenzio, del non-scandalo, la giovane donna dovrà seguire il marito in una lontana provincia cinese, in cui è in corso un’epidemia di colera. Il contatto con la miseria e la malattia, l’incontro con semplici suore missionarie e con il loro mondo, la porteranno ad interrogarsi sul significato profondo della vita, a ritrovarsi come persona, a scoprire nel marito un uomo che non conosceva… purtroppo tale esperienza non sarà sufficiente, non le impedirà di tornare al proprio egoismo. Da questo libro sono stati tratti dei films, con il finale cambiato (i due si scopriranno innamorati); uno è del 1934, con la “divina” Greta Garbo; un altro, “Il settimo peccato”, è del 1957. A Febbraio del 2007 è uscito l’ultimo remake, con Naomi Watts. Il titolo è dovuto ad una frase del poeta Shelley: “Non sollevare il velo dipinto che chiamano vita”. Anche in un’altra opera, “Il filo del rasoio”, William Somerset Maugham racconta un’esperienza di guerra che porta il protagonista ad abbandonare il mondo in cui vive, per cercare nella lontana India il significato della vita; anche da questo libro fu tratto un film, con Tyrone Power. Credo che questo autore andrebbe riscoperto e riletto, perché ci fa capire tante cose sulla donna, sulle conquiste del femminismo, sulla nascita di una ricerca della spiritualità.

(Gabriella Nasi)

 

Sono un essere senziente, nella fattispecie un gatto. Il mio nome non ha importanza, non siamo così attaccati alle cose materiali, noi felini. Sono vissuto in Giappone nei primi anni del Novecento, al tramonto dell’era Meiji. Non ho avuto una vita lunga, ahimé, ma certamente intensa. Ho abitato, spesso ignorato, a volte tollerato, in casa di un professore che si atteggiava a grande studioso. L’ho osservato per lunghe ore, mentre componeva versi o scriveva in prosa, mentre tentava di tirare con l’arco o recitava canti nel gabinetto. Colei che scrive, colei alla quale detto queste righe che le mie pigre zampe si rifiutano di digitare su questo strano oggetto che è la tastiera, sa tutto di me, avendomi letto e seguito per cinquecento pagine. L’irriducibile gattara ha per me e con me palpitato, riso, sofferto. Le mie avventure l’hanno commossa, le mie riflessioni sono state spunto di meditazione. L’umana lettrice ricorda divertita il racconto della mia caccia a topi, mantidi e cicale. Rideva fino alle lacrime, come lacrime erano quelle che bagnavano le pagine alla fine del libro. Io sono un gatto, sì, ma non solo e non sempre, dice lei. Sono ironia e dissacrazione, sono sentimento e concretezza, sono cuore, sono ragione. Io sono un gatto, filosofo, meditativo, colto, disincantato, innamorato, pigro, attento e riflessivo come solo un gatto può essere. Io sono un gatto e come tale appartengo alla categoria degli essere superiori. Se non mi credi, spendi 18 volgari euro per questo libro. Soddisfatto o rimborsato, sì. Vedrai che mi terrai con te.

P.S. Sono l’umana gattara. Approfitto di un momento di distrazione del Gatto, per invitarvi alla lettura del libro. Il punto di vista dell’Io narrante rende la lunga lettura sciolta e piacevole. Un periodo di storia spesso sconosciuto viene mostrato in tutto il suo affascinante splendore, attraverso un linguaggio pungente e lieve, mai noioso o stancante. Cinquecento pagine che si leggono velocemente e che si vorrebbe non finissero mai. Come la vita. Come certe vite.

(Maria Cristina Rosa)

 

                                                      

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